Metropolis, il vibrante mondo di Fritz Lang

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Nelle mie premesse iniziali, mi ero riproposta di riflettere sulla capacità del cinema di creare dei veri e propri mondi alternativi, realtà parallele alla nostra o del tutto autosufficienti e separate da essa. Per questo motivo metterei per questa volta in pausa il discorso sulla complessità narrativa che rende il reale un gioco labirintico, per immergermi invece in un mondo che mi sta particolarmente a cuore: quello creato da Fritz Lang in Metropolis (1927).

La storia di questo film, come quella di ogni cult che si rispetti, è lunga e travagliata. Non solo costò una fortuna per poi registrare un vero e proprio flop al botteghino, ma anche numerosi critici cinematografici non compresero il suo valore al tempo della prima uscita. La sua pellicola venne così più volte tagliuzzata, ridotta e ricomposta e quello che vediamo oggi è quindi il risultato di un puzzle a cui mancano dei pezzi e, nonostante questo, semplicemente straordinario. Dietro il restauro della pellicola che ha permesso al film di arrivare a noi si cela una storia avvincente, fatta di ritrovamenti, di appunti, di parti di sceneggiatura commentata che Paolo Bertetto racconta nel suo Fritz Lang Metropolis, un saggio certo complesso ma estremamente illuminante che dedica al film oltre duecento pagine di approfondita analisi.

Alla fine di questa tormentata storia, Metropolis giunge a noi in una versione di 147 minuti. Un aspetto che può spaventare e scoraggiare molti dalla sua visione, se già non bastasse l’essere in bianco e nero e muto. Eppure, vi assicuro che Metropolis non potrebbe essere più moderno. Sono due ore e mezza che scorrono piacevoli, come con alcuni film più recenti, grazie probabilmente a un intrecciarsi di fattori che vanno da una trama, semplice ma coinvolgente, a un ritmo incalzante e a uno stile che, non per nulla, ha influenzato molta della fantascienza che vediamo ancora oggi.

fotografia dal set

Come dicevo all’inizio, Metropolis crea un vero e proprio mondo, totalmente autosufficiente e autodeterminate che lo spettatore conosce piano piano insieme al protagonista. Oltre il mondo di Metropolis non sembra esistere nient’altro e la società che lo governa potrebbe essere considerata una sorta di archetipo della distopia moderna, tant’è infatti che è ambientato in un futuro – che a noi in realtà non appare neanche più tanto lontano – dove ogni cosa è portata all’estremo. Il mondo di Metropolis si struttura in verticale, secondo una logica di potere e prestigio, e si suddivide in cinque differenti livelli con al vertice la città dei ricchi e alla base quella degli operai, suddivisa tra la fabbrica che manda avanti il mondo in superficie, e i dormitori. Ancora più giù, nel sottosuolo, le catacombe, la città dei morti, gli inferi dove letteralmente ribollono le emozioni e i sentimenti dei protagonisti. Nonostante la quantità incredibile di attori utilizzati per realizzare il film, i veri protagonisti sono in realtà pochi: Freder e suo padre, nonché proprietario di Metropolis, Joh Fredersen, Maria, lo scienziato Rotwang e l’androide da lui creato. Per il resto si hanno tanti attori per un unico attante, e non solo in termini di ruolo e funzioni, ma proprio in termini di sviluppo e di visione: gli operai del sottosuolo, ad esempio, si muovono sempre insieme, a sincrono come se fossero un’unica grande persona, senza dubbio simbolo del proletariato e veicolo dei valori della lotta operaia.

Nonostante la linearità e semplicità narrativa, di certo a Metropolis non manca la complessità compositiva. Il lavoro di messa in scena è davvero incredibile, a partire proprio dagli edifici che strutturano la città: a guardarli ci si trova davanti a una piccola enciclopedia della storia dell’architettura e degli stili. Inoltre, in Metropolis ogni dettaglio è significativo, ogni gesto ben ponderato e volto a veicolare un determinato messaggio. Tutto all’interno dell’inquadratura si fa segno di qualcosa. Il risultato è una ricerca infinita del significante che avvince l’osservatore più attento. Inoltre, è innegabile il tentativo di chiamare continuamente in gioco il suo spettatore attraverso alcune caratteristiche del film stesso: un ritmo serrato e ben scandito non solo dal montaggio, ma da ogni movimento interno all’inquadratura, una focalizzazione ambigua accompagnata a giochi di punti di vista per cui non è chiaro chi sta mostrando quanto si vede sullo schermo, e soprattutto gli sguardi in macchina. Se pensiamo per quanti anni la rottura della quarta parete è stata un tabù inviolabile, fa specie vederla invece qui tanto insistita. Questo continuo guardare lo spettatore non fa che interpellarlo, chiamarlo dentro, renderlo partecipe e quindi compartecipe delle emozioni dei protagonisti. Lo sguardo in macchina non favorisce solo l’immedesimazione, ma esplicita in tutta la sua forza il fascino cinematografico con una serie di sguardi in grado di creare un crescendo emotivo e quindi di coinvolgimento dello spettatore. In questo modo chi guarda non si sente estraniato, non percepisce la rottura di una parete, bensì viene assorbito all’interno della narrazione fino a sentirsene quasi parte.

Quando chi scrive ha un certo trasporto emotivo verso l’oggetto di cui sta parlando, non è facile razionalizzare. Ed è così che mi sento ogni volta che rivedo e parlo di Metropolis. La sua complessità e genialità è difficile da contenere in poche righe (tant’è infatti che Bertetto gli ha dedicato un intero volume) e il modo in cui il film fa vibrare le emozioni è difficile da trasmettere a parole. Solo la visione può farlo. E, se già visto sul piccolo schermo risulta incredibile, vi consiglio assolutamente di non perdervi l’eventuale opportunità di vederlo sul grande schermo, magari sonorizzato dal vivo come è accaduto a Ravenna in occasione del Soundscreen Film Festival lo scorso anno. Come dicevo, un’emozione impossibile da esprimere.