In occasione di ART CITY Bologna 2022, venerdì 13 maggio al Sì sarà inaugurata la sua installazione Quinta calma, mentre sono in corso una sua personale a New York e molti altri progetti: una buona occasione per iniziare a conoscere un artista rigoroso e defilato.
Ci racconti la primissima volta in cui hai immaginato, o anche solo desiderato, di vivere d’arte?
“Non escludo che questo sentimento di cui mi chiedi sia affiorato in un giorno imprecisato della mia adolescenza, in cui sfogliai accidentalmente un FMR d’annata, recuperato in un mercatino tra qualche palma cresciuta controvoglia e la statua di uno statista, nella mia città natale. Lì certamente per la prima volta fui catturato dalle opere di Wollfli nelle quali credo di aver individuato un qualcosa che superava per certi versi l’effetto di quanto di “canonico” si era imposto nella mia mente fino a quel momento.
Ma è anche giusto ricordare di come questo presupposto abbia avuto un buon tempo per sedimentare e solo molto più tardi si sarebbe rivelato come un sincero pungolo.
D’altro canto, sempre che esista la possibilità di una certa assegnazione naturale, non posso non ricordare di come per un tempo relativamente lungo io abbia remato contro rispetto all’attuazione di qualcosa che sembrava attendermi.
Ci sono state, oggi mi è chiaro, molte resistenze da superare, una certa opponente attitudine, uno strano esercizio della volontà che pretendeva di portarmi altrove.
Si è trattato di mettere a registro alcuni vettori.
Prima di quella che chiamerei una sorta di accettazione, si sono dati soprattutto fattori determinanti, riposti in tempi ben più remoti quali sviste, fraintendimenti e differimenti che hanno svolto un ruolo non secondario nel dissodamento del mio futuro.
Non da ultimo esiste, dal punto di vista filogenetico una linea del carbone dalla quale discendo e perché no? anche una sorta di pazienza aurea, una piccola ostensione e un titolo attribuito ad un mio trisavolo che vantava una faccia da far concorrenza a quella di Dino Campana”.
Quali elementi del tuo lavoro sono particolarmente apprezzati, in Italia e all’estero? E quali differenze noti, nella ricezione delle tue opere nei diversi Paesi?
“In Italia ho lavorato per circa venti anni, prodigandomi molto ma ottenendo meno di quanto avrei sperato.
La mia opera non trova i migliori accordi in questi paraggi e a parte alcuni sparuti momenti, grazie ad una sorta di credo condiviso con pochi altri che si sono dati il tempo di soppesare quel che andavo facendo, ha faticato e fatica a collocarsi.
Avendola trovata “impantanata”, essendomi trovato, di mio, in buone compagnie per svernare ma troppo lontano da qualcosa che mi consentisse un più vivo e spregiudicato confronto, ho voluto guardare altrove.
Questo altrove (e altrimenti) l’ho trovato prima a Vienna e poi a New York.
Ho imbastito un dialogo proficuo con alcune realtà decisamente diverse rispetto a quella “nostrana” in cui la blanda scorrevolezza di “ismi”, l’irrequietezza del mercato spesso soggetto ad alcune mode, una certa ostentata attitudine da “engagé a la carte”, un concettualismo più o meno spocchioso, rischiavano di disamorarmi non in rapporto al mio fare ma relativamente alla possibilità di poterlo insinuare nelle maglie della realtà.
È sempre proficuo trovarsi con le spalle al muro.
Non avere scelta è addirittura una soluzione!
Mi sono trovato a percorrere (senza attraversarla pur avendo tutti i connotati tipici di una soglia) una linea sottile e comunque liminale rispetto a certi accorpamenti o domini come quello della Art brut o della “non mainstream art”.
Alla mia opera si imputa mediamente un certo coefficiente di visionarietà, qualche cosa che definirei una sorta di lucido delirio figurale costantemente accampato; non la ritengo una pratica che deriva da un sapere perché ad essere messe in gioco sono piuttosto alcune forze oltre ad un certo gradiente di contagiosità da cui sono presi gli elementi in campo.
Imprescindibile, per me, è potermi rapportare con segni e elementi di dubbia o ignota derivazione. Si tratta spesso di effetti preceduti da altri effetti, disposti su una serie qualsiasi lungo la quale si vanno accumulando i momenti formali e di spoliazione, che anticipano una paradossale conversione.
Dal punto di vista lavorativo, dopo tanto tempo, oggi, posso dire di trovarmi bene con gli sconosciuti; credo anzi che la cosa più proficua sia lavorare con degli sconosciuti che non hanno motivo di mentire per preservare uno sfiancato raggio d’azione e che quindi valutano strettamente l’oggetto che a loro ti lega, con i quali non si rischia di finire per fare di questo sforzo (che segna comunque il passo di una vita intera) una semplice festa più o meno riuscita né una giostra di tiepidi e vicendevoli complimenti”.
Tu vivi a Bologna, dove insegni Pittura all’Accademia di Belle Arti e dove ha sede il tuo studio. Cosa della tua attività didattica nutre il tuo processo creativo?
“Non ci sono valichi tra dimensioni che giudico tanto autonome.
L’opera poi, non è il luogo in cui ritrovare o cercare qualcosa di smarrito; se dovesse essere caduto un che di vitale, tra tante negazioni munite di uno o più inneschi immerse in una atmosfera da prima volta (o da eccezion fatta), neppure saprei riconoscerlo.
Questo vorrei dire senza correre il rischio di dirlo male: un’opera non è un indotto!
Viene da fuori questa provocazione, da dove non si è stati, da quel che non si è avuto e non ci è mancato.
È materia non pesata, quella che resta ed è tutta da lavorare.
Certi spostamenti non possono mancare di essere trasformazioni (se non accade questo allora ci si limita al mero trasloco da un punto a un altro della realtà)”.
È possibile insegnare l’arte?
“L’arte non si insegna.
Si possono correggere certi tiri, fare da sponda in certi viatici ma deve esserci un motivo e il motivo ha a che fare con una disposizione umana.
Si può tentare di calare gli apprendisti in circostanze propizie, far loro comprendere che la via del simbolico è quel che ci caratterizza, oltre che quel che promette di avvicinarti da quanto ti sta invece allontanando, che il dono che si è ricevuto oltre ad essere compromettente, va debitamente interrogato, non usato per impegnare la domenica della vita e che sarà inevitabile scomunicarsi per poi provarsi in una nuova lingua. E comunque non mettere gli aspiranti in condizione di svolgere un compito ben fatto, stornarli dal dettato del visibile, scongiurare la tentazione di creare innesti di fortuna, inibire l’inclinazione addizionale o sottrattiva, evitare che possano confondere l’ovvio con l’eccezionale, che non si cimentino in illusionismi d’effetto… Si tratta di fare un passo indietro e ancora un altro su più fronti in modo da poter intraprendere il viatico dell’arte, questa “allungatoia” che è la vita nel suo complicarsi.
Fare scuola mai e neppure insegnare; insinuare, forse…”.
In occasione di ART CITY Bologna 2022, venerdì 13 maggio al Sì sarà inaugurata la tua installazione Quinta calma. A favore di persone curiose ma estranee al linguaggio spesso criptico dell’arte: perché questo titolo?
“Quinta calma è un titolo pensato per il teatro AtelierSi che accoglierà in un tempo breve la grande opera concepita per l’occasione.
L’assonanza che ha questo titolo con “finta calma” e dunque il fingimento o la dissimulazione; evoca anche la quinta teatrale che rimanda implicitamente a quanto abitualmente è dietro ad essa.
L’opera, l’ho immaginata avanzare, sorvolando il tavoliere attoriale, in un tempo da cui lo spettatore è escluso e procedere fino ad addensarsi di fronte alla platea.
Quindi chi verrà, dovrà percorrere lo spazio di questo scorrimento che dilata quel “dietro”, quel rimosso da sempre inaccessibile”.
In cosa questo progetto differisce dai precedenti? E quali elementi di continuità vi si potranno ritrovare?
“Affetto da una sorta di monomania, certo che la (mia) questione andasse posta a livello dell’immaginario e comunque propenso a liberare le immagini ho visto mutare i costituenti interni, sottoposti a continui viraggi e clivaggi, sempre disposti a quella contagiosità di cui sopra che consente la migrazione degli attributi rendendo instabile ogni soluzione formale.
Dissomiglianza e differenza vanno strappate a forza dal cuore dello “stesso” (…si corre persino il rischio della beatitudine a voler ricordare il grande Penna)”.
Il Sì è uno spazio curato da Ateliersi, ensemble principalmente attivo nelle arti performative contemporanee. Non sei nuovo a collaborazioni in questo ambito: tra le altre vale ricordare almeno il tuo sguardo in Suite Zero, recente creazione della coreografa Simona Bertozzi e del violoncellista Claudio Pasceri. In quale maniera nutre il tuo lavoro, l’incontro con altre discipline?
“Nel progetto Suite Zero a cui sono stato invitato a partecipare, il mio ruolo era quello di un occhio esterno e inopportuno. Ho assistito ad alcune prove effettuate dalla Bertozzi e da altre danzatrici in vista della realizzazione finale. Non ci sono state interazioni, la mia presenza non era destinata ad alcuna interlocuzione con la parte attiva e vibrante per cui ho ritenuto inevitabile lo starmene in disparte.
Il lavoro inesausto, severo, disarticolato e madido di sudore che lì mi è stato offerto in anteprima non poteva non essere una concreta lezione sul corpo.
Solitamente non parlo di arte, men che meno con artisti che tendono a far capannelle smaniosi di trovare un argomento comune. Non ci sono argomenti comuni, in arte.
Ognuno deve appellarsi alla propria piccola tragedia privata e capire se a forza di disfarla si possa giungere in prossimità dell’impersonale”.
In questi giorni è in corso una tua mostra personale a New York. Ci racconti una sorpresa e una delusione che questa esperienza ha portato?
“La sorpresa è esserci, essere lì, aver fatto in modo che i miei segni potessero approdare tanto lontano (lontano, in senso geografico ma anche in un certo qual modo destinale). La delusione è nell’aver fatto tanto ma non ancora abbastanza”.