Il latte dei sogni, purché sia vegetale

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opera di Tau Lewis - ph Alessandra Carini

 

Il latte dei sogni è un libro che raccoglie le favole di Leonora Carrington, ma è anche il titolo scelto dalla curatrice della 59esima Biennale d’arte di Venezia, inaugurata al pubblico lo scorso 23 aprile.

Non mi soffermerò sui padiglioni dei singoli Paesi, che sono sempre diversi ma alla fine uguali agli anni prima, piuttosto sulla grande mostra che si snoda tra Padiglione centrale ai Giardini ed Arsenale, curata da Cecilia Alemani, curatrice italiana classe 1977, famosa a livello internazionale per aver seguito il progetto artistico della High line di New York.

Alemani, su 213 artist* esposti, sceglie ben 191 donne che, da tutto il mondo, rappresentano l’arte del presente e del futuro. Soprattutto del futuro oserei dire, in quanto la maggior parte è nata tra gli anni ’80 e ’90, cosa altrettanto incredibile per una Biennale e, per non farsi mancare nulla, Alemani opta per una maggioranza di artist* provenienti non dall’Occidente, ma bensì da Oriente, Medio-Oriente e Centro e Sudamerica.

I critici italiani storcono il nasino alla visione dei colori, dei materiali, delle stoffe e del folklore, classificando questa Biennale come “la fiera del bric-à-brac”, “la Biennale Maison du Monde”, “il bazar dell’arte contemporanea”, non accorgendosi che l’unica cosa a spaventarli è la totale mancanza della cara comfort zone, della loro amata, petulante e nostalgica arte europea che, in questo caso è, quasi, completamente assente, supportati dalla convinzione (da un secolo a questa parte ormai) che l’unica arte degna di nota sia quella occidentale o che all’Occidente fa l’occhiolino.

Climate change, animalismo, me too, gender fluid, libertà di espressione sono solo alcuni dei macro temi sui quali ruota tutta la mostra, trasformandola in un Manifesto visivo sui diritti delle persone e dell’ambiente.

Ma entriamo nel vivo dell’esposizione cominciando dalle sculture in stoffa di Emma Talbot, che rappresentano la vita delle donne tra mondo onirico e quotidianità: figure che sembrano mitologiche ma che riflettono la fragilità umana, delle dee non più celesti ma terrene, delle guerriere pronte a combattere e cadere.

 

ph Alessandra Carini

 

Tau Lewis, sempre con l’ausilio di scampoli e tessuti, costruisce enormi maschere sciamaniche, talismani e oggetti rituali immaginari che ci portano nei mondi arcaici degli Spiriti della Natura.

E arriviamo poi nella gigantesca installazione di Precious Okoyomon dove, in un giardino vero e proprio rifatto all’interno di una delle sale dell’Arsenale, prendono forma statue fatte anch’esse di terra, semi e germogli, simboli di presenze antiche, antenate di un mondo passato o futuro, chi può dirlo, ma altamente simboliche.

 

ph Alessandra Carini

 

E ancora i dipinti di Felipe Baeza, esplosioni mistiche di colori-forme-vite umane, intrecciate indissolubilmente agli elementi naturali che, con una tecnica da brividi (a me sono venuti) ci racconta di una vita possibile come recita il titolo di un suo dipinto: Mi apro contro la mia volontà sognando altri pianeti. Sogno altri modi di vedere questa vita.

 

ph Alessandra Carini

 

Ma non solo le ultime generazioni, anche le storicizzate vengono omaggiate in vere e proprie piccole mostre dentro la mostra principale come la sezione La culla della strega, che racconta delle artiste attiviste che già dagli anni ’40 e ’50 incentrarono il loro lavoro sulla parità di genere, le prime artiste femministe venute alla ribalta nel sistema dell’arte. E le incredibili Paula Rago e Cecilia Vicuña, Leone d’Oro alla carriera (insieme a Katharina Fritsch).

Di lei Alemani ci spiega le motivazioni del premio: “la cilena Cecilia Vicuña è un’attivista che da anni lotta per i diritti delle popolazioni indigene in America Latina e in Cile. Nel campo delle arti visive si è distinta per un’opera che spazia dalla pittura alla performance, fino alla realizzazione di assemblage complessi. Al centro del suo linguaggio artistico c’è una forte fascinazione per le tradizioni indigene e per le epistemologie non occidentali. Molte delle sue installazioni sono realizzate con materiali trovati e detriti abbandonati che l’artista intesse in delicate composizioni, nelle quali il microscopico e il monumentale sembrano trovare un fragile equilibrio: un’arte precaria, al contempo intima e potente”.

Un altro Leone, quello come miglior artista, va all’afro-americana Simon Leigh e alle sue monumentali sculture che come degli eleganti pugni in faccia ci urlano sottovoce che “noi bianchi” abbiamo fondamentalmente rotto il cazzo.

 

ph Exibart


E non mancano le italiane, anche emergenti, come
Chiara Enzo e i suoi piccoli dipinti che raffigurano porzioni di pelle (d’oca), piccoli particolari di corpi umani, capelli, piedi, lenzuola.

Insomma, una Biennale al femminile (finalmente), che una critica ha definito fin troppo “pink”. Non so bene cosa volesse far intendere, soprattutto non so come ancora si possa accostare un colore ad un genere, ma se questo è il risultato, allora che pink sia, più pink per tutt* e amen!

Brava Cecilia Alemani, hai fatto molto meglio di tuo marito Massimiliano Gioni che, nel 2013, curò una Biennale poco coraggiosa che nessuno ricorderà. Tu invece rimarrai negli annali e nei nostri cuori.

 

Cecilia Alemani – ph Liz Ligon – courtesy Friends of the High Line

 

 

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Nasco a Ravenna nel 1982 con tre grandi passioni: i cavalli, il cinema e David Bowie. Nel 2001 mi trasferisco a Venezia per studiare Arti Visive con le figure più importanti dell'arte contemporanea come Francesco Bonami, Gilberto Zorio e Angela Vettese. La mia carriera comincia nel 2008 lavorando come curatrice presso la galleria d'arte Ninapì-Nesting Art Gallery, il Lucca Digital Photo Fest e alcuni padiglioni della Biennale di Venezia. Nel 2016 fondo MAG | Magazzeno Art Gallery e nel 2020 il progetto Equidistanze | Residenze Artistiche. Sono co-curatrice di Deriva Festival. Arte. Paesaggio. Città. e faccio parte del comitato scientifico del MAP, il museo all’aperto di Faenza.