Realmente è difficile tirare i fili di quello a cui abbiamo assistito, cercare un fil rouge coerente, trovare delle interconnessioni di senso compiuto tra le varie anime presenti in Azul (prod. Nuovo Teatro di Marco Balsamo e coprod. Fondazione Teatro della Toscana) con Stefano Accorsi, il direttore artistico del teatro fiorentino, in scena a tentare di dominare a fatica tutta questa materia guizzante che scappa da ogni poro, questo aggrovigliamento di storie non incastrabili che sfuggono alla logica come sabbia dalle mani. La scena azzurra con un gigantesco schermo rettangolare (che però ci rimanda soltanto immagini fumose e alla fine di acque correnti) è molto elegante, semplice e lineare (di Luigi Ferrigno), pulita e classica, senza fronzoli. Testo e regia, come il disegno luci, sono a cura di Daniele Finzi Pasca, svizzero, che ha all’attivo spettacoli che vanno da un solo spettatore a tre cerimonie per le Olimpiadi. È la drammaturgia che zoppica e fa acqua da ogni parte, ad ogni scena un incespico claudicante, un boccheggiare incompiuto e incompreso tra i tanti macroargomenti toccati, o soltanto sfiorati, e poi abbandonati nel vuoto di parole lasciate cadere dal palco.
Ce ne sono stati tanti di spettacoli teatrali basati sul calcio, sul football, sul futbol: ricordiamo L’Atletico Ghiacciaia di Alessandro Benvenuti, Non plus Ultras del Nest di Napoli, Mi chiamano Garrincha di Fabio Mangolini, Italia-Germania 4-3 di Umberto Marino così come Italia-Brasile 3 a 2 di Davide Enia, Tacalabala di Giuseppe Cederna, Fuorigioco di rientro di Andrea Mitri, Ago Capitano silenzioso di Ariele Vincenti. Ed altri se ne potrebbero citare.
Ancora di più ne conta il cinema, da Fuga per la vittoria a Febbre a 90, da Il presidente del Borgorosso Football Club con Sordi, a Sognando Beckham, da Eccezzziunale Veramente con Abatantuono a L’uomo in più di Sorrentino fino a L’allenatore nel pallone con il mitico Oronzo Canà. Anche A.C.A.B. di Sollima a suo modo parla di calcio. Di due pellicole a sfondo calcistico è stato protagonista anche il nostro Accorsi: la perla delicata in bianco e nero L’arbitro di Paolo Zucca, ambientato in Sardegna dove era appunto una giacchetta nera, e Il Campione dove interpretava il professore-mentore di un giovane talento giallorosso. Accorsi si divide tra la fede bolognese e quella interista. Non aspettatevi però da Azul un racconto alla Eduardo Galeano o alla Osvaldo Soriano, niente a che vedere con le mirabolanti vicende di San Isidro Futbol Club di Pino Cacucci poi diventato al cinema Viva San Isidro!. Quelle atmosfere retrò, quella polvere dei campetti di provincia dimenticati da Dio, quella povertà che diventa orgoglio, quel calcio antico che si fa metafora della vita, gli eroi, la cabala, la dea bendata, l’arbitro infausto, gli spalti, la lotteria dei rigori, le ingiustizie, i torti: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono. Poi vinci”, sottolineava Gandhi.
Ecco che Azul avrebbe la pretesa di essere questo e molto altro invece rimane un mosaico colorato e ben architettato di “vorrei ma non posso”, di strutture che si sommano creando uno zibaldone che stentatamente, senza una bisettrice chiara e precisa e decisa, si trascina. Ci sono tanti nuclei e nodi che non riescono a dialogare con le altre parti testuali. Però l’incipit è veramente curioso e promette bene; quattro uomini (un buon cast: oltre ad Accorsi, Luciano Scarpa, somiglia a Joaquin Phoenix, Sasà Piedepalumbo alla fisarmonica e Luigi Sigillo al contrabbasso) saranno i protagonisti di questa avventura: Pinocchio detto Pino, Golem detto Gol, Adamo detto Momò, Frankenstein detto Frankie. Quattro uomini nati senza una madre (con buona pace delle femministe). Ecco il primo binario solido, pesante, corposo da sondare e solcare: il rapporto padre-figlio. Però poi non si capisce il perché trasportare tutta la storia, di amicizia e pallone (il padre è già stato messo da parte) in Sudamerica, più precisamente in Uruguay, più dettagliatamente a Montevideo, più minuziosamente tra le fila della squadra del Nacional, acerrimi rivali del Penarol (chiamato così per via di un quartiere così definito per gli immigrati piemontesi in onore al paese di Pinerolo).
E qui la storia vira in aneddoti da Bar dello Sport soprattutto in memorie e ricordi violenti di risse mitizzate, picchiatori da curva, botte da orbi machiste, scazzottate virili, daspo, condanne, cicatrici portate con fierezza e onore, l’attaccamento ai colori della maglia sudata scambiato per eroismo, agguati ai nemici, scontri con la Polizia, coltellate, mani e nasi rotti, gite premio in ospedale; sicuramente non il miglior esempio civile da portare sul palco soprattutto in un periodo come questo dove con forza da ogni parte si grida alla Pace e non certamente al sangue dell’avversario. Infatti tutti gli episodi affastellati di violenza gratuita urbana (ma raccontati con il sorriso sulle labbra) mal si conciliano con le bandiere arcobaleno esposte alla fine dai quattro attori durante gli applausi: finora hai esaltato la furia e la prepotenza da strada, l’arroganza delle mani e dei pugni, la prepotenza e la prevaricazione, e alla fine dici alla platea che vuoi la Pace, predicando bene e razzolando malissimo.
Una frase poi è risultata alquanto deplorevole, infelice e infausta, irritante e stridente,
incomprensibile e assolutamente fuori luogo: “Se Maradona va al Penarol gli spacchiamo le ossa”. L’asserzione si commenta da sola per la bassezza, l’ineleganza, Maradona è deceduto da un anno e mezzo e in circostanze tragiche e drammatiche, usando termini tanto faziosi quanto scadenti, senza aggiungere che, per chi ama il football, Diego Armando, non a caso definito El Pibe de Oro, non era un calciatore qualsiasi ma proprio il Dio del pallone. Quindi non soltanto un’espressione sbagliata, ma proprio una caduta di stile, uno scivolone senza scusanti. Nel grande calderone mettiamoci poi continui riferimenti alla numerologia, sprazzi di cultura ebraica disseminata, la chemio che ha affrontato la moglie di uno dei quattro (Adamo), un coro da stadio cantato e riproposto infinite e stucchevoli volte, una grossa fetta di pièce dove Accorsi esce dal personaggio e dal testo e si mette a dialogare con la platea sul come, dove e quando gli spettatori sono stati concepiti (?), fino alla lettera finale emula, ma lontana anni luce, di quella di Totò e Peppino. Alla fine, a sipario chiuso, l’unico canto possibile non poteva essere che questo: “Azul, il pomeriggio è troppo Azul e lungo per me, mi accorgo di non avere più risorse”.