2019
Ho trentasette anni. Biennale Arte di Venezia.
Nel contesto sacro dell’arte alta, sommersa dalla fatica che comporta il tentativo di sentire, o pensare, tra così tante opere e così tante persone, possono accadere piccoli rapimenti. Mi imbatto nelle opere della fotografa giapponese Mari Katayama, capaci di stregare il cuore. Il corpo di Mari Katayama è un corpo non conforme, che cattura tutta la mia attenzione e la mia attrazione, in un primo momento alla ricerca scissa di quello che le appartiene (umano) e quello che ha innestato dall’esterno (postumano). Poi immagino Mari Katayama come cyborg, o almeno come soggetto che si trasforma in cyborg nelle pratiche artistiche, e capisco che il mio approccio binario e divisivo è figlio dell’epopea coloniale positivista che ha formato il mio modo di osservare la realtà. Katayama si propone come unicum, organismo cibernetico, come cyberg+organism, ibrido di innesti e carne. Un’opera sublime, che desta desiderio e terrore. Un corpo soggetto che percorre una nuova strada, si pone fuori dalla passività che siamo abituati ad associare al femminile e alla disabilità, si afferma generando pratiche controculturali, discorsi di riappropriazione, centro della narrazione, nuovi codici estetici e narrativi discostati dalla sguardo dominante – che vuole la donna in condizione di dipendenza, la persona con disabilità sofferente se non nascosta (di sicuro non bella, desiderabile e connessa alla dimensione dell’erotismo), la protesi come oggetto tecnologico-medicale, di sicuro non artistico o forma di potenziamento.
Nella ricerca di qualcosa che mi potesse avvicinare a quella condizione ho iniziato ad interrogarmi. In cosa ci assomigliamo? Quali sono le mie protesi? Quali le mie disabilità? Dove lo realizzo il mio postumano?
2003
Piccolo salto temporale.
Ho ventidue anni. Parma.
Mi sveglio stanca, non ho vigore, nell’impero della prestazione mi sento spesso colpevole. Scopro di avere una malattia autoimmune e diverse questioni legate agli ormoni, soprattutto una iperprolattinemia, che mi fa funzionare come se il corpo fosse costantemente in condizione di allattamento. Nel frattempo sto seguendo il corso di psicologia clinica all’Università, e registro una frase del docente “Le donne che allattano sono depresse, e questo è funzionale alla loro missione. Devono essere come mucche, pacifiche e ferme, la poca energia finalizzata ad accudire la prole”. Ai tempi non ero ancora abbastanza coscientizzata, e mi difendevo da queste affermazioni come una ricercatrice che osserva un batterio al microscopio: oggettivavo il discorso, mi catapultavo fuori dalla realtà che in quel momento uno sguardo posizionato stava descrivendo, quindi quella non era più la mia realtà, non includeva nulla che potesse riguardarmi. Don’t care.
Qui e ora potrei dire che quel professore stava commettendo alcuni macroscopici errori, atti di oppressione su gruppi marginalizzati sui quali torneremo in futuro. Per quel che ci interessa in questo contesto, seguendo il suo ragionamento, avere in circolo tanta prolattina, ormone dell’allattamento, è un bene, perché rende le persone depresse, e di conseguenza malleabili, poco reattive, funzionali alla causa. E questa viene presentata come una verità assoluta, non vorremo mica contraddire la biologia e le missioni che ne derivano!
Io mucca, donna, per di più con deficit da iperprolattinemia: condannata.
Cose buone dagli anni ’80
Il Modello Biomedico della disabilità ci dice proprio questo. Che la disabilità dipende da un deficit, o da una disfunzione, individuale e legata al corpo della persona, collocandola fuori norma nei confronti di uno standard. E se questo deficit comporta anche uno svantaggio sociale, scarsa performance in alcuni compiti, tale da minare il “normale” funzionamento sociale e lavorativo (leggi consumo e produttività), ecco fare capolino lo spettro dell’handicap.
Dobbiamo aspettare gli anni ’80 del secolo scorso, il diffondersi dei paradigmi della complessità, Mike Oliver e il suo Modello Sociale della disabilità per veder sbocciare le gemme della rivoluzione. Questo modello guarda agli individui non come a persone con una disabilità, ma come soggetti disabilitati da un sistema che non tiene conto delle specificità. L’attenzione viene spostata da un piano di menomazione organica individuale ad un’azione sociale messa in pratica dalle organizzazioni e dalle comunità quando si strutturano come entità non accessibili. In quest’ottica, il fatto che una persona che utilizza una sedia a rotelle non possa entrare in un edificio perché sono presenti degli scalini non dipende più da un presunto deficit motorio nell’individuo, ma da una ideologia abilista che ha concepito ed autorizzato la presenza di quegli scalini, scegliendo le caratteristiche che definiscono un corpo “abile” e creando di fatto una condizione di marginalizzazione per chi non le possiede. Parlare di deficit presuppone l’esistenza di una norma che si pone come valore assoluto, ma a questa norma nessun corpo/mente si può realmente conformare. Basta una caviglia slogata per rendere quegli scalini un ostacolo, anche per quel corpo “abile” per cui solitamente non lo rappresentano. Non nasciamo biologicamente disabili, ma veniamo disabilitati tutte le volte che non vengono riconosciute la nostra soggettività, i nostri corpi/menti unici, fragili e carenziati, bisognosi di cure, protesi e strumenti, dinamici e in divenire, soggetti a traumi e invecchiamento.
Questa buona notizia ci libera dalla condanna biologista e ci dice che, forse, qualcosa possiamo attivare. Prima di tutto un mea culpa per tutte le volte nelle quali abbiamo commesso peccato di abilismo: potremmo iniziare a chiederci dove si situino i nostri pensieri, le nostre azioni, quello che ci circonda, come costruiamo e come organizziamo i nostri spazi e i nostri servizi su una scala di accessibilità universale (vogliamo sognare in grande, sì). In secondo luogo, attenzione alle insidie di quella che l’attivista Stella Young ha chiamato inspiration porn, cioè pornografia motivazionale. Approcciarsi ad un corpo/mente non conforme come ad un corpo/mente eccezionale, che ce la fa “nonostante tutto” (ma tutto che?), pieno di coraggio, fonte di insegnamento, nasconde le stesse trappole pregiudizievoli del paradigma basato sul deficit, cioè oggettivizza (quel corpo ha valore solo se relazionato ad un parametro, cioè il corpo “abile”) e discrimina (quel corpo ha valore perché, nonostante sia difettato, prova ad agire come un corpo non difettato). Chi ha una disabilità non “è affetto” da nulla, non “lotta” contro nessuno e non “combatte” alcuna guerra, se non quella dettata da un modello culturale che riconosce nell’abilità normata l’unico obiettivo desiderabile. Terzo: possiamo provare a guardarci dai pericoli dell’essenzialismo, che sostiene l’affermazione e la ricerca di universali in contrapposizione (come abile/disabile) tralasciando ciò che è particolare, diverso, differente, innestato, unico.
Oggi, ovunque
“Il corpo non è un dato biologico, ma un campo di iscrizioni di codici socio-culturali”, ci dice la filosofa Rosi Braidotti nell’introduzione al Manifesto cyborg di Donna J. Haraway. E continua “Contro questa standardizzazione del vissuto corporeo, e contro il perbenismo interessato e la dignità fatta di vuoto di coloro che stanno sempre con la ragione e mai con il torto, si è levato il movimento cyberpunk in tutta la sua splendida bruttezza”.
Oggi, ovunque, mi sintonizzo sulle mie protesi assumendo qualche pillola rinvigorente e mettendo gli occhiali, e cerco ogni giorno di politicizzare un particolare un po’ punk senza relegarlo ad una moda anni ’70. Me la prendo con calma più che posso, e pazienza se vengo fraintesa e additata come persona pigra, oziosa, ritardataria, a volte cerco di spiegare. In quiete troveremo luoghi e tempi per trasformare l’antagonismo divisivo in una comunità intersoggettiva capace di cura e attenzione reciproca, iniziando a fare pace con quello che al contempo ci individua e ci accomuna sia alla Mucca che a Mari Katayama: la nostra splendida bruttezza (cyborg).
Lettura:
Donna J. Haraway (1995), Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli
Visioni:
Mari Katayama, http://shell-kashime.com/