Buttar lì alcuni pensieri, alcune domande: a ciò mirano queste poche righe.
Certo insufficienti a sintetizzare l’avventura dei Chille de la balanza (il prossimo anno compiono cinquant’anni d’arte battagliera e visionaria – e non hanno alcuna intenzione di celebrarsi, né tantomeno di fermarsi): nemmeno due densi saggi (ne scrivemmo qui) riescono a contenere la furia creativa e maieutica di Claudio Ascoli e Sissi Abbondanza, i fondatori. Figuriamoci un articoletto online.
Una storia teatrale lunga così, la loro. Storia di generazioni.
E invece di farsi servire si mettono al servizio.
A crear connessioni.
E già su questo ci sarebbe da dire. E da scrivere. E da imparare.
Il posto del teatro, abbiam messo per titolo a queste righe.
Ex-città manicomio a Firenze, da un bel po’ d’anni, sia detto per chi non li conosce.
Posto di fragilità che si fa “materiale drammaturgico”, direbbero quelli che se ne intendono: pulsante nutrimento al quotidiano fare e immaginare teatro, a una pratica artigianale, o forse meglio operaia, dell’arte della scena, a un’idea larghissima di cultura che ibrida alto e basso, letteratura e dialetto, fini intellettuali e ruspanti popolani, Storia e storie, ideali e pensieri.
Luogo significante, San Salvi, che trasforma l’arte e dei Chille e che dall’arte dei Chille è trasformato.
Innumerevoli le avventure di questi decenni, impossibili da riassumere qui.
A una accenniamo, come da titolo: Luca D’Arrigo da, con, per i Chille de la balanza.
Qualche giorno fa a Firenze ha presentato, in prima nazionale, il monologo Che l’A. Pace sia con voi, di cui riportiamo integralmente, per sintesi e chiarezza, la presentazione che ne sintetizza temi e intenzioni:
“Una ragazza quasi cieca, in stato confusionale, scappata da casa, senza un posto dove dormire, da una zona degradata della città cerca disperatamente di arrivare all’Albergo Pace, per soccorrere il fidanzato ferito in una rissa di coltello e lì alloggiato. O almeno, così sembrerebbe stando ai confusi discorsi della donna, durante i quali vengono ripetute come un mantra sempre le due stesse identiche parole: Hotel Pace. Hotel Pace. Hotel Pace.
Un ragazzo, che si ritrova a scegliere tra tornare a casa lasciando questa anima al suo destino, o rimanere cercando di aiutarla, alla fine sceglie di essere la guida della donna fino all’albergo. Ma a opporsi si erge minaccioso un confine tra società civile e stato di natura che sembra respingere in ogni modo le anime perse dell’umanità, lungo il quale i due intraprendono un viaggio che diventa assieme un cammino spirituale e una Via Crucis carica di domande sempre più grandi riguardo alla condizione di tutti coloro che vengono tradizionalmente etichettati come ‘emarginati’ all’interno del nostro Stato, l’Italia, il Paese ‘dalla più bella Costituzione del mondo’.
Dubbi laceranti di fronte ai quali, come cittadin_ consapevoli, non è possibile darsi pace.
Quanto il nostro Stato, nei suoi rappresentanti e nelle sue leggi, protegge davvero le anime perse che vagano al suo interno?
Quanto ci fa comodo pensare che l’emarginazione abbandonata a sé stessa sia solo una condizione di anomalia nel nostro Paese, qualcosa che sta nel buio dell’eccezione?
E se invece le storture del nostro sistema statale fossero, più che un’anomalia del sistema nascosta ai più, un groviglio di contraddizioni che avvengono in piena luce sotto gli occhi di tutti – cittadini, rappresentanti delle forze dell’ordine, governanti – tremende storture a volte persino “protette” da vuoti normativi o da regolamenti, trattati, leggi che di civile non hanno proprio nulla? L’Italia è davvero il Bel Paese che si vanta di essere?”.
Da, con, per i Chille de la balanza, si diceva.
Da: D’Arrigo, giovane e talentuoso attore-drammaturgo, qui ha trovato, almeno per questo progetto, una casa. Che vuol dire sostegno alla produzione e alla distribuzione. Che vuol dire la possibilità, per nulla scontata, di far vivere in diversi luoghi resistenti del nostro Paese un dispositivo scenico che solo nel reiterato incontro con il pubblico potrà fluidificare alcune rigidità, chiarire alcune variazioni di dinamica e intenzione, registrare alcuni ritmi.
Con: la dimensione di condivisione dei Chille passa dall’essere compagni – condividere il pane, dunque, e un bicchier di vino rosso attorno al tavolo dialogando con franchezza del lavoro subito dopo la prova generale, a cui abbiamo assistito. Con franchezza ragionare sulla funzione del teatro, di questo teatro antico e attualissimo: cose vecchie che sanno di buono, cose vecchie che sanno di nuovo.
Per: Luca D’Arrigo porterà lo spettacolo in giro per l’Italia, si diceva. E, insieme a luci e oggetti di scena, una pratica di teatro fatta di casse da scaricare e ideali, di storie da raccontare e da cui farsi attraversare. Proprio come i Chille.
Ciò non faccia pensare, sia detto per evitare malintesi, a un passaggio di testimone: lungo e fecondo sarà ancora il tempo in cui Claudio e Sissi, in primis, creeranno contesti d’arte e di senso. Uno di questi, vien da azzardare, ha a che fare con la questione del tramandare e, dunque, per esteso, con la faccenda smisurata dell’esser Maestri.
Subito vien da pensare a Grotowski: «Una ricerca non può limitarsi a una sola vita. È una faccenda di parecchie generazioni».
A scanso di equivoci: non stiamo dicendo, perché non è questo il caso, di un diretto rapporto allievo-Maestri, nella collaborazione D’Arrigo-Chille.
Vi è autonomia.
Vi sono però, fuor di dubbio, anche similari idee su ciò a cui l’(in)attuale arte della scena debba cercar di fare accadere, nelle persone che incontra.
Teatro, in tutto e per tutto, politico.
Per chiarezza: qui si intende il termine politico nel senso originario e largo di qualcosa che concerne la polis tutta, la comunità.
Il teatro politico di cui stiamo parlando, in questo caso, si muove fra due polarità che il Novecento teatrale ha espresso con forza: teatro con contenuti politici con finalità pedagogiche esplicite (da Piscator, a Brecht, a L’Istruttoria di Peter Weiss, a US di Peter Brook, per capirci) e uso politico del teatro, quello che incarna in prima persona il cambiamento della relazione teatrale, l’attivazione dello spettatore, la dilatazione del fatto scenico oltre i suoi confini tradizionali (come ad esempio il teatro a partecipazione di Giuliano Scabia, per citare un altro Maestro che con i manicomi ha avuto, e molto, a che fare).
E per finire queste righe sconclusionate (giacché con fin troppa aria professorale abbiam discusso fin nei più minuti dettagli dello spettacolo con D’Arrigo, l’altra sera a Firenze), riportiamo alcuni versi proprio di Giuliano Scabia, che paion perfetti in questo caso e che di perfetto hanno anche il titolo: Del teatro e della vita il fiore.
Chi è un fiore?
Uno che sboccia, fiorisce e sfiorisce.
Per chi fiorisce?
Per sé – per essere fiore.
E Fiore lo spazzino
lui sì vero re del mondo
per chi canta?
Per sé canta – per la gioia di sé.
O gente che corre
inseguita dall’ansia:
cos’è il bene per un fiore?
Fiorire.
E per voi dinosauri?
E per noi del Pavano Antico
cos’è il bene?
Essere in fiore.
Far sì che il difficile
attraversamento della vita
sia un teatro in fiore –
il teatro della nostra vita
in fiore – anche accanto alla morte:
godendo del fiorire di noi e di tutti, perfino
dentro il lato oscuro che ci spaventa
e ci nutre.