Cinque brevi consigli di visione, ma non per tutti.
Minimi suggerimenti, speriamo opportuni, per chi si senta affine a un’idea di arte come trasformazione, piuttosto che decorazione, come occasione per interrogare il presente e il proprio abitarlo, piuttosto che evaderlo.
Una piccola proposta di viaggio da sud a nord: cinque mostre tra Bologna e Lugano, in Svizzera, passando da Milano.
Pronti, via.
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Bologna, MAMbo, Italo Zuffi, Fronte e retro
Fino al 15 maggio è possibile attraversare, nella maestosa Sala delle Ciminiere a piano terra, una personale che racchiude opere di epoche e formati diversi.
Trasformazione, qui, è pulsare dialettico tra coppie di opposti: opere che, come muovendosi su un piano basculante tra forma e informe, spigolosità e rotondità, morbidezza e durezza, pars destruens e pars construens, obbligano la percezione del fruitore a un’incessante, salutare ginnastica.
Molte sembrano dialogare con forme della storia dell’arte contemporanea più o meno recente. Come Corner gravity (1997), un mucchio di sabbia del peso dell’artista posizionata in un angolo dello spazio espositivo che pare citare, in chiave poverista e certo meno pop, la celebre installazione di Felix Gonzales-Torres, Untitled (Portrait of Ross in LA), del 1991: il corpo (proprio o dell’amato) è traslato in una materia che si offre alla più o meno intenzionale ed esplicita interazione con lo spettatore, contemplando la possibilità di essere, da questo imbattersi fortuito, trasformato.
O le varie creazioni in cui il gesto diviene il punctum del fatto artistico (fotografie e video che documentano il lancio di sedie e cuscini o il perimetrare una piscina) e ciò che è dato a vedere, il contenuto referenziale dell’opera, funziona come traccia di qualche cosa che è accaduto e che ne costituiva, altrove, l’essenza: un po’ come le tele di Pollock, gli autoritratti di Arnulf Rainer o, con termine chiarissimo in questo senso, i relitti di Hermann Nitsch.
Una mostra utile a chi volesse (ri)connettersi al pensiero trasformativo che le proteiformi sperimentazioni artistiche dell’ultimo secolo et ultra hanno generato.
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Bologna, MAMbo, Collezione permanente
A proposito di storia dell’arte: al primo piano, la mitologica Collezione permanente si è recentemente arricchita di nuove opere, tra cui alcune folgoranti fotografie di Lisetta Carmi della serie I travestiti (1965-67).
Ai fini del nostro piccolo discorso vale nominare, e consigliare, la nuova sezione Rilevamenti d’archivio. Le Settimane Internazionali della Performance e gli anni ’60 e ’70 a Bologna e in Emilia Romagna.
Foto, brevi video, lettere autografe, manifesti e altre rarità danno conto di esperienze visionarie su cui tantissimo è stato detto e scritto.
Non è certo questa la sede per approfondimenti di alcun tipo: l’invito, caloroso, è a perdersi in questa piccola e al contempo ricchissima raccolta, per approssimarsi a un’idea di arte da intendersi, lo diciamo citando uno dei reperti in mostra riguardante la celeberrima Esposizione in tempo reale di Franco Vaccari del ’72, “come azione e non come contemplazione”.
Oltre al citato Vaccari si trovano tracce del lavorio di Giuliano Scabia, Gina Pane, Urs Lüthi, Marina Abramović, tra gli altri – e una serie di piccole fotografie del Vangelo secondo Matteo di e su Pier Paolo Pasolini.
Per gli appassionati del genere un così ricco concentrato del lavoro di persone e opere che hanno radicalmente trasformato lo sguardo contemporaneo sull’arte -e, in alcuni casi, sul mondo- è roba da sindrome di Stendhal.
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Milano, Fondazione Arnaldo Pomodoro, Pamela Diamante, Stato di flusso
Una folgorante installazione in cui immergersi: su sei letti (o bare scoperchiate?) vediamo dall’alto in basso, come fossimo in visita a un ospedale, o a una camera mortuaria, appunto, mezzibusti in video di altrettanti performer impegnati a trasformare in una minimale partitura respiratoria (elaborata in collaborazione con l’attrice e drammaturga Tita Tummillo De Palo) una quantità di temi che ibridano l’esperienza quotidiana e la psicoanalisi, l’ostensione e il pudore, l’essere e il mostrare.
Attraversato questo corridoio, immersi in roboanti respiri intrecciati a un tappeto sonoro avvolgente e al contempo inquietante, su una parete sta un’immagine della Menade danzante di Skopas (330 a.C.) in parte celata da alcuni frammenti di pietra.
Anche in questo caso salta agli occhi la tensione dialettica, feconda di possibili significati, tra coppie di opposti: presentazione (la pietra) e rappresentazione (la fotografia della Menade), pesantezza e levità, ancorarsi alla terra e protendersi verso il cielo, immobilità e tensione al dinamismo.
Come non pensare ai celebri cavalli che Jannis Kounellis fece portare alla Galleria L’Attico di Roma, nel 1969, e al potere trasformante di quella operazione tanto minimale quanto radicale, pregna di discorso ancorché senza titolo.
In quel caso, come in questo, l’invito è a lasciarsi attraversare, attraversando l’opera, fiduciosi nel potere trasformativo, non del tutto dicibile, dell’arte. Quando è tale.
Fino al 24 giugno, ingresso gratuito.
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Milano, Fondazione Prada, Osservatorio, Role Play
Meriem Bennani, Juno Calypso, Cao Fei, Mary Reid and Patrick Kelley, Beatrice Marchi, Darius Mikšys, Narcissister, Haruka Sakaguchi & Griselda San Martin, Tomoko Sawada, Bogosi Sekhukhuni e Amalia Ulman: questi gli artisti, perlopiù giovani, che la curatrice Melissa Harris ha raccolto nei due piani dell’Osservatorio, per l’occasione immersi in una luce blu (installazione luminosa concepita dall’agenzia creativa Random Studio) che a noi ha ricordato con commozione Yves Klein, a dar forma a discorsi e domande sul tema dell’identità e delle sue possibili, infinite moltiplicazioni e ibridazioni (come non ricordare che nell’etimologia della parola persona vi è maschera?)
A mo’ di sineddoche segnaliamo il lavoro di Haruka Sakaguchi & Griselda San Martin Typecast Project (2019), che problematizza la questione dell’identità e dei cliché ad essa legata in una serie di trasformazioni al quadrato: alcuni più o meno sconosciuti attori di diverse etnie sono mostrati prima per i ruoli che solitamente sono chiamati a interpretare, secondo gli stereotipi dell’immaginario collettivo legati alla loro provenienza o al loro aspetto fisico, poi per quelli che desidererebbero.
Il passaggio, solitamente, è da parti legate alla tradizione, o da cattivi, o da mezze cartucce ad altre in cui si appare moderni, o buoni, o eroi, o trasgressivi.
Vien da pensare all’ottocentesco André-Adolphe-Eugène Disdéri, alla sua idea di fotografia come possibilità di trasformazione, ancorché temporanea, da una identità imposta e patita ad una sognata, altra: in bilico tra attestazione del reale e costruzione di un immaginario libero e glorioso.
Tra le opere, diversi specchi in cui anche senza volere ci si trova riflessi ricordano, muti, che nessun_ è libero da questi role play.
Fino al 27 giugno 2022.
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Lugano (Svizzera), MASI Palazzi Reali, James Barnor, Accra/London – A Retrospective
La più ampia retrospettiva dedicata al fotografo ghanese oggi ultranovantenne è una bella occasione per attraversare, mediante oltre 200 immagini, trent’anni (1950-1980) in cui molto del mondo, e del modo di guardarlo, si è trasformato.
Dalle fotografie in cui Sua Altezza Reale la Duchessa di Kent è mostrata durante una parata (1957) a quelle in cui il patron della rivista Drum – Africa’s leading magazine, che per anni ha pubblicato le immagini di Barnor, è ritratto nelle feste in spiaggia, fino alle modelle del calendario AGIP in posa davanti a pile di barili e a improbabili cantanti al mercato (1974), per arrivare a malinconici e al contempo vitalissimi scatti a colori, la mostra è una buona occasione per approssimarsi a un percorso artistico che coniuga documentazione e narrazione, tra reportage e ritrattistica.
Ricordando, se mai ce ne fosse bisogno, che l’arte è anche e soprattutto un mestiere.
Fino al 31 luglio 2022.
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È primavera. Buoni viaggi e buone trasformazioni.
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