Nel margine del centro

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© David Hockney

 

Ho pensato molto a quale titolo avrei potuto, forse dovuto, dare a questa rubrica.

Per aiutarmi ho cercato la definizione della parola nel vocabolario Treccani online.

Rubrìca, singolare femminile: “Nell’arte libraria antica, la terra rossa usata per tingere l’asticella centrale del volume, la custodia di esso e l’index, cioè la strisciolina di pergamena pendente dal rotolo papiraceo e contenente il nome dell’autore e il titolo, e inoltre per scrivere le prime lettere, il titolo dei capitoli, le segnature e i richiami”.

Chi sono. 40 anni. Ho tagliato i capelli corti, decidendo di smettere di colorarli. Sono una psicoterapeuta a orientamento psicodinamico, e una curatrice di progetti culturali. Sono bianca e i miei pronomi sono femminili: sono una donna cisgenere, mi identifico con il sesso che mi è stato assegnato alla nascita. Ho vissuto la maggior parte della mia vita in Italia, Emilia-Romagna, tra paesoni, Appennini e Riviera, cresciuta a stretto contatto con persone con disabilità, in una cittadina dove cinquant’anni fa chiunque era povero, e improvvisamente è arrivata una grande ricchezza. Una rivoluzione industriale accelerata, una scala mobile supersonica, alla cui base, ancora oggi, continuano ad accalcarsi persone che sperano di risalire. Prima dalle campagne, poi da altre Regioni, altri Paesi. Ho preso il primo aereo a vent’anni, avuto il primo pc a ventidue, e sono stata a teatro per la prima volta a ventitré. Ho letto molto, dimentico in fretta.

Non mi sono specializzata in alcunché, ma cerco di tenermi al passo, in questa realtà che ha troppi fenomeni da osservare e cercare di capire, partendo da come la nostra storia e la nostra cultura la condiziona. Il metodo è alla portata: osservazione, studio e ascolto. Mi capita quasi sempre di sentirmi disorientata e andare alla ricerca di qualcosa che possa autorizzarmi a occupare un posto nel mondo. Un’amica ha detto che potrei avere delle caratteristiche da persona multipotenziale, orizzontali e non verticali, orientata a intessere legami più che all’analisi della cosa in sé. Questo è un pensiero che riesce a darmi pace.

Credo di potermi definire pansessuale, costruisco legami amorosi con le persone indipendentemente dalla loro identità di genere, con una alla volta e con totalità. Sto cercando di imparare a parlare. Di trasformare pensieri, azioni e intuizioni in concetti che hanno a che fare con le politiche e le pratiche sociali, come il transfemminismo, la decolonialità, l’intersezionalità, l’antispecismo, il pluriversalismo e di analizzare le mie cognizioni e il mio operato alla luce di ciò che vorrei contribuire a scardinare: il razzismo, il patriarcato, il privilegio, il classismo, in generale i comportamenti fobici e oppressivi dettati da paura, sofferenza e ignoranza. Cerco, con fatica, di capire prima di giudicare. Capire per empatizzare e limitare il giudizio come atteggiamento difensivo.

Il punto. Una rubrìca titolata Fuori posto. Della definizione di Treccani mi rimane il segno rosso:

– Su cui è impresso il nome di chi scrive _ perché non possiamo pensare di vivere, esprimerci, creare contenuti e conoscenza se non all’interno di uno specifico posizionamento.

– Che indica titoli e prime lettere _ perché evoca la dimensione dell’attivismo, come una scintilla capace di scatenare un incendio.

– Che definisce i richiami _ perché la realtà è una costruzione appresa e può essere utile sapere come si formano i nostri pregiudizi.

– Che può aiutare e rendere patente ciò che è latente, cioè larga, ariosa e manifesta la presenza di tutti quei tracciati, resi invisibili dall’abitudine, che condizionano le nostre azioni e i nostri pensieri e costruiscono la nostra bolla protettiva.

Per fare questo cercherò di fare appello a persone, immagini, produzioni culturali capaci di sovvertire l’agio con il quale conviviamo con i nostri stereotipi e rinverdire le nostre capacità di analisi, cura e accoglienza.

Il margine del centro è il punto da cui parto. Leggere Rachele Borghi (2020), geografa queer, me l’ha reso evidente: la mia identità cisgenere bianca e appartenente a una cultura eurocentrica mi colloca nel centro. Ma ho cercato di raccontare anche alcune delle cose che mi fanno sentire per la maggior parte del tempo fuori posto e mi fanno guadagnare i margini di quel centro, la distanza ideale per oscillare e sentire che, a volte, in quel che appare come buono e giusto qualcosa non torna – non solo in me, ma anche attorno a me. Come nell’immagine che apre questo scritto. Perché ci siamo appropriati di un simbolo totemico* come arredo da giardino? Forse per la stessa ragione per cui utilizziamo per i cerotti rosa la definizione “color carne” anche se la pigmentazione cutanea è presente nella specie umana in infinite variabili? Quante volte ci capita di indulgere nel privilegio bianco senza coscientizzazione?

Sono una persona lenta, andiamo con calma.

Per smontare il centro una domanda alla volta. Una domanda al mese.

 

Lettura: Rachele Borghi (2020), Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo, Meltemi

Visione: David Hockney (1968), American Collectors (Fred and Marcia Weisman), Art Institute Chicago

* Da Treccani online: “Totem è un termine che deriva dalla lingua degli Ojibwa (chiamati anche Chippewa), un gruppo di nativi americani che abitano nell’area dei Grandi Laghi, tra Stati Uniti e Canada. Nella lingua ojibwa ototeman significa «egli è del mio stesso clan»; nindotem vuol dire «(esso) rappresenta il mio clan» e si riferisce a un animale – il falco, la tartaruga e così via – che viene considerato il simbolo del clan stesso. Il termine fu acquisito dalla lingua inglese nel 18° secolo”. Nel momento in cui l’origine culturale di un contenuto, un manufatto o una parola viene negata e deprivata del suo valore stiamo commettendo una appropriazione.