Data la scelta del titolo di questa rubrica, mi sembra doveroso dedicare questo primo appuntamento al cinema delle sorelle Wachowski, Lana e Lilly, e ai diversi mondi che hanno creato: da quello più strutturato della trilogia di Matrix (1999) al pastiche di Cloud Atlas (2012), dal futuristico di Speed Racer (2008) al fantascientifico di Jupiter Ascending (2015).
Per parlare di Matrix chiamerò in mio aiuto Thomas Elsaesser e la sua definizione di mind-game film, che fornirà una base di analisi non solo in questo caso, ma anche per molti dei film che vi proporrò in futuro. Elsaesser definisce il mind-game film un fenomeno trasversale, che attraversa generi, nazionalità e autori. Sebbene si sposi spesso con l’horror, la fantascienza, il noir, il mind-game film travalica gli stilemi classici dei generi mettendo in primo piano due aspetti: da un lato pone dei problemi epistemologici sulla conoscenza, dall’altro suscita dubbi ontologici sulla realtà e sull’esistenza. Per fare questo si serve di narrazioni complesse, mondi paralleli, realtà mentalmente distorte. Si tratta di film che giocano insomma con la percezione della realtà dei protagonisti e allo stesso tempo chiamano in causa lo spettatore, disorientandolo e invitandolo ad accettare la sfida di districare la matassa. Le tipologie di storie sono differenti e la teoria di Elsaesser si articola in maniera molto più complessa di così, ma avrò occasione di scriverne volta per volta.
In questo caso, il tipo di narrazione che più chiama in causa la trilogia di Matrix è quella in cui il protagonista è portato a chiedersi “Chi sono io? Qual è la mia realtà?”, mentre il film passa da un mondo all’altro. Su questo film, divenuto ormai un vero e proprio cult, piovono centinaia di studi critici e teorici e non mi sento di dover aggiungere qualcosa a quanto è già stato detto da studiosi molto più autorevoli di me. Ci tengo a evidenziare solo alcune caratteristiche che ne fanno una sorta di dichiarazione d’intenti del cinema delle sorelle Wachowski: dal punto di vista stilistico c’è per l’appunto la narrazione complessa e non manca certamente quella che in molti hanno definito l’estetica del digitale, che guarda ai videogiochi e alla logica del database; dal punto di vista tematico, oltre alla messa in discussione della realtà, si evince anche un’aspra critica al mondo capitalista, alla produzione in serie, alla disumanizzazione dell’essere umano. Tutti elementi che ritorneranno nei film a seguire.
Una certa complessità narrativa si ritrova anche in Cloud Atlas, co-diretto con Tom Tykwer. In questo caso non si assiste alla compresenza di più realtà, quanto di differenti epoche storiche: lo scarto tra una e l’altra però è ben marcato non solo da una serie di elementi diegetici, ma anche dalla scelta di generi cinematografici diversi. Il film è infatti una sorta di pastiche che mette insieme il film storico, la fantascienza, il thriller e la commedia, nel narrare sei storie differenti ma intrecciate tra loro. Di base, le singole storie sono semplici, lineari, seguono la classica composizione in tre atti, ma è il montaggio la chiave che lo rende un film che gioca con il proprio spettatore: le sei storie vengono spezzettate e montate in maniera alternata, di modo che si scarta da una storia all’altra, da un’epoca a un’altra, da un genere all’altro, per dare vita a qualcosa di più di una semplice trama ad episodi sconnessi. A fare da collante sono alcuni elementi ricorrenti, come l’acqua o la musica, e il gioco, per lo spettatore, è quello di mettere insieme i pezzi, ricostruire le storie e trovare le tracce che le legano. Il film mette infatti in atto una sorta di mise en abyme, dove una storia è contenuta nell’altra grazie a uno o più elementi. Anche in questo caso si può fare ricorso al mind-game film per quanto riguarda il coinvolgimento dello spettatore, mentre per la costruzione della trama il film si avvicina a quella che Warren Buckland ha definito puzzle plot – una trama che abbraccia la non linearità, favorendo la costruzione di una realtà spazio-temporale frammentata, con diversi livelli di realtà – o alle cosiddette modular narratives, teorizzate tra gli altri anche da Alice Autelitano che parla di strutture modulari in cui si intrecciano percorsi narrativi differenti, con una sovversione dell’ordine cronologico. Oltre alla struttura complessa, dal punto di vista stilistico, nelle scene di ambientazione futuristica, si evince un gusto pop che tornerà in altri film. Lo stesso vale per alcuni richiami tematici, come la riflessione sulla verità e sulle diverse versioni della verità, la denuncia al capitalismo, al consumismo, all’omologazione, alla produzione in serie, alla disumanizzazione dell’essere umano.
Diverso è invece il caso di Speed Racer, tratto dall’anime di Tatuo Yoshida: una narrazione piuttosto lineare immerge lo spettatore in un mondo futuristico, ma costruito in maniera compiuta. A dominare è l’estetica del fumetto che si intreccia con quella del videogioco e con uno stile spiccatamente pop, che emerge chiaramente dalla scelta dei colori – dettaglio che tornerà anche negli altri film –, mentre la computer grafica si intreccia con il live action come mai prima. In questa analisi non utilizzerei le medesime categorie teoriche viste in precedenza, sebbene esse mettano in evidenza una certa influenza dell’estetica digitale e del videogioco nel cinema contemporaneo che in Speed Racer certo non manca. Tuttavia il film rappresenta comunque un tassello di quella riflessione autoriale messa in campo dalle registe: dal punto di vista stilistico, si evince infatti il desiderio di portare avanti una riflessione sulle possibilità della messa in scena e una cifra registica che predilige la forma del collage, del pastiche, che sia di stili come in questo caso o di generi cinematografici come nel caso di Cloud Atlas; dal punto di vista tematico tornano alcune ossessioni, come l’onnipresente denuncia del desiderio di potere che corrompe.
Veniamo infine a Jupiter Ascending, ultimo film realizzato in ordine corologico, che condivide con Speed Racer una certa linearità narrativa che tuttavia abbraccia questa volta la fantascienza più classica, con alcuni tipici stilemi del genere, come ad esempio gli alieni e la battaglia nello spazio. Il mondo di Jupiter è però un multiverso, sebbene meno complesso di quello di Matrix e con una narrazione meno articolata di Cloud Atlas: non vi è uno scarto tra due dimensioni né una compromissione della linearità spazio-temporale, bensì un unico grande cosmo che racchiude un universo formato da più mondi. In Jupiter torna però quella domanda che riecheggiava anche dietro Matrix “chi sono io? che cosa ci faccio qui?” della protagonista. Una domanda che trova risposta solo nell’esistenza di questo universo più grande, a lei inizialmente sconosciuto, che dà ordine al caos ed è in grado di restituire valore alla vita terrena. Anche in questo caso però, ci sono alcuni elementi in comune con i precedenti film: dai dubbi ontologici dei protagonisti alla moltiplicazione dei mondi, fino a un’esplicita denuncia del sistema capitalistico, resa all’estremo in questo caso nella coltivazione di vite umane da sacrificare.
Cult, mainstream, cinema d’autore sono categorie che sembrano alternarsi se si guarda alla filmografia delle sorelle Wachowski in ordine cronologico. Nonostante le chiare differenze, è certamente indubbio che questi film costruiscano dei veri e propri mondi, le cui fondamenta non sono in realtà poi così lontane dal nostro. Infatti, la messa in scena di un sistema capitalistico distopico guarda certamente alla nostra realtà, portandola alla sua estremizzazione, mentre la denuncia del desiderio di dominio e della fama di potere è quanto mai tristemente attuale proprio in questo periodo. Anche l’estetica digitale e del videogame penso possa essere una buona rappresentazione della nostra realtà, influenzata sempre di più dai meccanismi tecnologici, mentre il desiderio di comprendere la realtà in cui viviamo e il nostro posto nel mondo resta un tema perennemente attuale, in grado di attraversare tutte le epoche.