Fa fare una bella capriola, Sorelle di Pascal Rambert visto il 18 febbraio scorso a Parma, nella proteiforme Stagione del Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti.
Un grande quadrato bianco, pile di sedie di plastica colorata. Due donne, le sorelle del titolo, che per un’ora e mezza litigano furiosamente.
Detta così potrebbe essere una grande banalità, o una noia mortale.
E invece.
Invece lo spettacolo è scritto e diretto da Pascal Rambert, uomo-teatro il cui precedente Clôture de l’amour è stato tradotto in ventitré e allestito in undici lingue diverse: numeri da capogiro.
Da vertigine.
La stessa che provocano, nella loro danza di fantasmi, le due monumentali attrici, a render lo spettacolo tutt’altro che banale, tutt’altro che noioso.
Sara Bertelà e Anna Della Rosa sono così brave che a un certo punto scompaiono.
Dicono il furioso testo-fiume così bene che dopo un po’ non lo si ascolta più.
Detta così potrebbe sembrare un difetto.
E invece.
Come i mimi, quelli bravi, fan vedere qualche cosa che non c’è -rendono visibile l’invisibile, dunque- la furibonda lite tra le due progressivamente diventa altro, consente un affaccio su ciò che non è detto, non evocato, non suggerito.
I corpi, come nella danza, creano lo spazio, non solo lo attraversano, in tensione dialettica tra forma e informe, tra furia e precisione, vortici di rabbia e maniacale esattezza della disposizione delle sedie sulla scena: incommensurabile geometria.
Sorelle funziona un po’ come il folgorante Dark Brother di Anish Kapoor al Museo Madre di Napoli: opera come calamitante buco nero, attrazione verso l’ignoto, l’indicibile, il pre- (o ultra-) umano.
Detto altrimenti: si tratta di fare della figura un insieme di intensità che oltrepassano la persona.
Teatro etimologico (dunque come luogo della visione), quello che si manifesta oltre il visibile – è forse la sua unica, vera, funzione: il resto è didascalia, predica, imitazione.
Poco alla volta affiora, nel grande quadrato bianco posto al centro dello spazio scenico nudo, una massa informe che si modifica attraverso la millimetrica partitura delle due interpreti.
Danza vocalica, coreografia di pause e grida, invettive e silenzi, accelerazioni e sospensioni. E cesellate micro-reazioni, guizzi trattenuti, slanci rappresi.
Gli unici momenti di requie, in cui le due paiono approssimarsi a una qualche possibile sintonia innanzi tutto cinetica, sono mossi dalla musica: come ad abdicare alla funzione mediatrice, o almeno chiarificatrice, del linguaggio verbale, come a consegnarsi all’arte dell’indicibile, forse.
Nel fiume di invettive finisce di tutto, dalla biografia familiare ai grandi temi del nostro tempo: lo si fa con affilati strumenti drammaturgici, scenici, attorali. Con le armi -e le convenzioni- della rappresentazione.
Vien da pensare al compianto Jean-Luc Nancy: “non può darsi presenza senza rappresentazione”, intendendo qualcosa che ha a che vedere con l’ordine della disposizione. Dinamicamente.
Topografia del caos, geometria del furore, simmetria della precipitazione.
È opera di paradossi, questo Sorelle.
Alla fine dei novata indicibili minuti si resta storditi e grati, per essersi imbattuti in un pezzo di grande teatro.