Mentre scende la scure della guerra a Kiev e dintorni, a Roma, proprio nei giorni della separazione di Totti con Ilary, ci si divide tra colpevolisti e innocentisti sentimentali, la pancia del popolo è un fermento di vociare, la piazza è un pullulare di radio impazzite, di tassisti che vogliono dire la loro sulla vicenda che travalica il calcio ed entra direttamente, come un tackle a piedi uniti da cartellino rosso, nella società romana. Un Capitano, c’è solo un Capitano. Cose che capitano. Roma, i romanisti, i romantici, la romanità. Caratteristiche che a volte si sommano e si fondono in un unicum. Ci sarebbe da fermarsi e pensare, sedersi e meditare, fare grandi elucubrazioni articolate sorseggiando silenzi. Lasciarsi scappare un “Mumble, Mumble” di circostanza, di sospensione, di attesa. Ripensarsi come ha fatto in questi anni Emanuele Salce con il monologo divenuto un cult. Ma lasciamo per un attimo da parte il fumettistico titolo che ci ricordava le nuvolette di pensiero dei nostri eroi infantili, quando rimuginavano più che pensavano, quando si mettevano lì, forse grattandosi la testa di anatra, di topo o di cane, e tornavano con la mente a fatti appena accaduti davanti ai quali ne erano usciti sconfitti.
Ecco, al “Mumble” ci torneremo dopo. Adesso concentriamoci sui sottotitoli di questa saga di Emanuele Salce. Se il primo Mumble (il soprannome dato in casa al piccolo Emanuele; 500 repliche in dodici anni) è diventato un caso nazionale, a girare in lungo e in largo la penisola, questo secondo step della sua vita, a cavallo tra la scena e la sua privata esistenza, era molto atteso. I sottotitoli dicono, spiegano tutto. Se il primo era “Confessioni di un orfano d’arte” il secondo (visto al debutto all’Off/Off Theatre romano in una serata di gala) invece recita “Diario di un inadeguato” (sempre con al fianco il fidato Paolo Giommarelli che equilibra ed esalta stavolta ha molto più peso nelle vesti dell’analista, del filosofo o del regista: favoloso il suo rap sulle strofe di “Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale” di Montale; regia di sostanza ed eleganza di Giuseppe Marini), spudoratamente timido, senza alcun scudo protettivo, senza corazza né scorza, nudo davanti alla scena, di fronte al pubblico a raccontarsi, finalmente aprirsi senza nessun costume addosso se non le proprie fattezze, senza alcun ruolo da dover interpretare se non un ripercorrere le sue tappe, le sue orme. Indifeso, colmo di candore e modestia, cerca di trovare un conforto più che un confronto, ha bisogno di abbracci e di umanità, di calore, impaurito, tentennante, carico di bisogno di essere accettato, della necessità di essere visto, finalmente, con le sue debolezze e dolcezze, senza più paure di essere rifiutato.
Non deve essere stato facile tornare a guardare il libro dei ricordi e l’album delle fotografie, riaprire i cassetti polverosi, proprio quelli che gli facevano più male, dolorosi, fendenti ferenti. Non ha mai cercato la fama piuttosto l’attenzione, la considerazione. E ci vuole coraggio per esporsi, riaprire ferite che si credevano rimarginate, togliere i punti dalle cicatrici e vedere nuovamente sanguinare il tempo sedimentato che aveva fatto la crosta. Fare l’attore è scavare dentro sé stessi a caccia di una verità, di una luce, di un sentimento che, deputato dalle miserie del mestierante, riesce ancora ad illuminare chi è sul palco e, di riflesso, chi ascolta sotto in platea. E bisogna essere sfrontati e coraggiosi, incoscienti e saggi, arroganti senza essere perdenti in partenza, aprirsi il petto alla ricerca della pallottola del plotone d’esecuzione. I rischi sono altissimi e i benefici risibili quando si decide di mettere in piazza le proprie debolezze e traumi, conflitti irrisolti e sciagure, cadute e scivoloni, faticose e gracchianti risalite.
E Salce (questo articolo non ne vuol fare un’agiografia) che in scena dà sempre una parvenza di controllo, voce impostata e sicurezza da vendere, con questi “Mumble” (ecco la mia recensione dell’epoca del primo) ha raschiato dentro il suo abisso, ci ha guardato dentro, si è visto riflesso e non si è lasciato ingoiare anche se le sabbie mobili erano lì pronte a fagocitarlo, mangiarselo vivo. Non è una prova narcisistica per ammirarsi o prendersi applausi vuoti, non è stato un atto di superbia, di spocchia, di alterigia, di boria orgogliosa, tutt’altro, all’opposto, Salce non cerca mai il ridicolo, l’iperbole, il grottesco ma insegue la semplicità, quella franchezza che il cognome e la/le famiglia/e di riferimento (o il mondo attorno che lo osservava) non gli permetteva fino in fondo, quella sincerità che l’universo dei lustrini dell’arte e le tavole del palcoscenico e le luci di Cinecittà non poteva permettersi. Se ne assapora la solitudine, la ricerca dell’oblio che fa a pugni con la voglia di dire al mondo: “Ci sono anch’io!”. Naufrago tra l’indole di proteggersi e difendersi e il desiderio di nascondersi e, forse a tratti, scomparire, proprio perché sentendosi sempre inadeguato alla vita, al ruolo da soddisfare, al vestito cucito su di lui, alle ambizioni di altri, costretto in una figura che non avrebbe potuto essere altro che vincente. Poteva perdersi, poteva liquefarsi, poteva autodistruggersi. Il teatro, la sua condanna, lo ha salvato. Lui che non avrebbe mai voluto recitare e che invece, inconsciamente nolente, proprio in questo modo ha trovato non il suo Eden, non il suo porto sicuro ma almeno un piccolo riparo dalle tensioni che, come valanga, si porta addosso, come fardello di Sisifo, dal quale è impossibile liberarsene, al limite puoi conviverci con la maturità degli anni, con l’assennatezza e il buon senso del tempo che lascia rughe, capelli bianchi e qualche certezza in più.
E noi voyeuristi ascoltiamo avidi come monito, come slancio, come insegnamento, come via di fuga, e ci riconosciamo e ridiamo di noi stessi e ci consoliamo, e ci perdoniamo. Ecco, forse la base e il fulcro di tutto è proprio il perdono, quel gesto gentile verso noi stessi, quella pacca sulla spalla per sostenerci e aiutarci, il perdono che relativizza gli errori del passato e ce li fa vedere sotto un’altra ottica, ridimensionando le sconfitte, donandoci, senza rassegnazione, una più giusta ed equa immagine di noi. Se nel primo “Mumble” c’era più rassegnazione e autocommiserazione, in questo secondo vengono sviscerati due momenti focali: la storia d’amore con la ragazza australiana e la prima volta sulla scena. Si ride tanto, di gusto, in questo racconto funambolico tra Amurri e Fantozzi. Si ride talmente tanto che i punti nodi tragici fanno eco e deflagrano con ancora più violenza: la rottura della storia d’amore e il fiasco totale al primo passaggio sul palcoscenico. Ti verrebbe da rincuorarlo. Un ragazzo sperso, imbambolato, indifeso, impreparato alla vita che si definiva squallido, diceva a se stesso di non meritarsi l’amore, l’attenzione, l’affetto in un senso di mancanza di autostima che fa male. Si sentiva un fallito, si disapprovava, si puniva dicendosi: “Non valgo niente”, non si accetta, vive la sindrome dell’impostore fino a pensare al suicidio.
Salce qui è più sciolto, meno impostato, artisticamente maturo, nella scrittura e per come governa e imbastisce la scena che tiene in pugno (questa volta Giommarelli ha un peso specifico maggiore nella riuscita della piece e questo loro confronto giova al successo, merito del testo ironico e tagliente scritto insieme ad Andrea Pergolari, della musiche curate di Paolo Coletta e della regia calibrata e sensibile di Marini), per come si racconta senza pena ma con la consapevolezza di aver fatto un grande lavoro su se stesso. Salce è il nostro antieroe disagiato, il nostro Paperino depresso (prima di scoprire che poteva diventare Paperinik), il brutto anatroccolo che, come sappiamo, sarà un bellissimo cigno. Rimuginare sul passato, ripensare a ciò che è stato non è mai tempo buttato, anzi è un catartico esercizio per respirare nuovamente a pieni polmoni, per ritrovarsi, per guardarsi puliti davanti allo specchio, per non punirsi più. Il perdono è il Sal(c)e della vita.