I registi romani Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, già autori di alcuni film di finzione (Et in terra pax del 2010 e Il contagio, del 2017, quest’ultimo tratto dal romanzo di Walter Siti) si sono imbattuti per caso in Lucy, su YouTube, recuperando una intervista raccolta da una emittente locale. Hanno deciso di dedicare al racconto della sua straordinaria vita il loro primo documentario.
Lucy è una signora di 96 anni, portati benissimo. Nelle prime scene la vediamo aggirarsi per Bologna, con la sua piccola auto, tra uffici pubblici e farmacie. Per l’anagrafe è Luciano Salani. Dice: “Una donna non può chiamarsi Luciano? Perché no?”. È il nome che le hanno dato i suoi genitori e al quale non vuole rinunciare. Ha la tempra e la vitalità di una ragazzina. Lo sguardo e il viso mostrano però i segni di una vita intensa e durissima. Una vita che non l’ha però piegata, lasciandogli anzi una grande forza di carattere. La memoria è ancora lucidissima e viva. Nel film, accanto alle scene della sua vita quotidiana, nel modesto appartamento nel quartiere bolognese di Borgo Panigale in cui abita, scorrono, attraverso le sue parole, i ricordi di una vita. A partire da quello di una sua poesia, scritta da giovane, dal cui verso finale è tratto il titolo del film: “Riposan le foglie ingiallite / su un mondo di cose appassite / c’è un soffio di vita soltanto”.
Tra i primi ricordi che affiorano, nel dialogo con una amica, quelli di quando faceva la vita alla Fiera di Bologna, col nome d’arte di Carmen. Le sue colleghe erano la Giraffa, la Gigia, la Tetta. E quella ficcanaso della Marcella, che gli chiedeva se era vero che si era fatta l’operazione. A quei tempi usciva per andare a lavorare indossando solo una pelliccia, e sotto non aveva nulla, anche se era inverno, solo un minuscolo slip di lamé.
Per definire sé stessa e la sua identità dice: “Io sono un intruglio”. Non ha deciso lei di essere così, ma la natura, che deve essersi ribellata, era indecisa tra l’una e l’altro, ed è uscita lei. Da piccola stava con le bambine, odiava il mondo dei maschi. Poi, un po’ più grande, stava solo con i ragazzi. I primi ricordi legati al sesso le provocano ancora un senso di disgusto, racconta di quando il prete del suo paese la toccava durante la confessione, era ancora un bambino.
Quando viene chiamato per la visita di leva, erano gli anni della seconda guerra mondiale. Dice di essere omosessuale, ma viene comunque reclutato nell’artiglieria, e mandato sul fronte, a Cormons. Ma poco dopo arriva l’8 settembre e finisce con le truppe fasciste. Riesce comunque a tornare a casa, ma è arrestato mentre sta facendo una marchetta, viene processato per diserzione e condannato a morte. Ottiene la grazia, ma non sfugge alla condanna ai lavori forzati, che sconta nel campo di concentramento tedesco di Dachau. Il volto è atterrito quando rievoca quel periodo tragico della sua vita. Il suo lavoro era quello di recuperare, su un carro, i corpi dei prigionieri deceduti, da destinare al forno crematorio. Racconta di quando una volta nel forno finì un uomo che ancora respirava.
Sopravvive anche a questa esperienza, e trova la forza di rinascere, non nascondendo ma vivendo apertamente la sua identità più profonda, fino a trasformare il suo corpo, che sentiva come femminile fin dall’infanzia. Fece di tutto nella vita, dagli spettacoli di varietà alle marchette. Ricorda i sui amori e i suoi viaggi.
Vive da sola, nel suo appartamento bolognese, ma non è una persona solitaria. Ci sono dei ragazzi che si prendono cura di lei, e ha stabilito un rapporto di mutua assistenza reciproca con un immigrato marocchino, Said, che ospita nella sua casa; è per lei una sorta di nipote.
Con commozione ricorda anche il profondo legame con Patrizia, una ragazza che considerava a tutti gli effetti come una figlia adottiva, morta da tempo per un tumore.
Ogni anno riceve, più volte, cartoline di auguri da Dachau. È una delle poche persone sopravvissute alla reclusione ad essere ancora in vita. Nelle ultime immagini del film la vediamo in carrozzina, nel prato del campo di concentramento, davanti al Memoriale che ricorda le sofferenze e le morti di quel luogo. È tornata più volte nel campo, l’ultima in occasione delle celebrazioni del settantacinquesimo anniversario della liberazione di Dachau da parte dell’esercito americano. Dice di non credere in Dio, che Dio siamo noi, che il mondo è quello generato dalla volontà degli uomini e che arrivata alla fine della sua vita si è resa conto che non vale la pena rimanere su questo pianeta, meglio cercare negli altri, per vedere se si trova di meglio. È infatti appassionata di tutto ciò (film, documentari) che racconta il cosmo. E i registi onorano questa passione di Lucy, interponendo al racconto immagini di mondi e pianeti lontani.
Che storia quella di Lucy. Ci racconta, attraverso la sua testimonianza, alcune delle pagine più buie del Novecento. E che persona è Lucy. Capace di vivere fino in fondo ed apertamente, in epoche molto diverse dalla nostra, la propria vita e la propria diversità, fregandosene dei pregiudizi della gente, in modo libero, senza vergogne e reticenze. Le sue parole non nascondono nulla, se ne infischiano delle convenienze e delle belle maniere, esprimono una energia capace di superare ogni limite e convenzione.
Il film è stato presentato in anteprima all’ultima edizione del Torino Film Festival ed è uscito in sala in questi giorni. Sarà possibile vederlo al Cinema Lumière di Bologna, il prossimo 27 gennaio (alle ore 20), nell’ambito delle iniziative promosse per la Giornata della Memoria, con la presenza dei registi e di Lucy Salani stessa. Sempre dal 27 gennaio sarà programmato anche su Sky documentaries.
DARIO ZANUSO e ALDO ZOPPO
C’è un soffio di vita soltanto, di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, Italia/2021 (85’)