L’espressione Invettiva inopportuna che funge da titolo dell’installazione di Laminarie è quasi una contraddizione in termini. Lo si può capire concentrandosi sul significato della prima parola. Con “invettiva” ci si riferisce a un discorso o gesto aggressivo che identifica un destinatario da colpire in modo accurato. Si sa, infatti, perché lo attacchiamo, quali sono i punti deboli della sua prospettiva, i pericoli a cui quest’ultima espone e quale visione del mondo vogliamo subentri al suo posto. Ne segue che ogni invettiva, in quanto invettiva, risulta per definizione sempre opportuna, cesellata fino a limare l’unghia.
Ora, però, Laminarie va in direzione contraria nel qualificare appunto la sua installazione come inopportuna. Si ammette, dunque, che c’è qualcosa di dissonante e di fuori fuoco nella costruzione che lo spettatore trova davanti a sé: un reticolo di corde tese lungo due chilometri. Al suo interno, l’attore Febo Del Zozzo – che ne è anche il costruttore – agisce in una fulminante dinamica scenica. Egli cerca di leggere il contenuto di un foglio sgualcito e, tra un tentativo e l’altro di lettura, compie alcune azioni fisiche: tira e strattona le corde, producendo dei suoni armonici o disarmonici, salta, si divincola, maledice in silenzio, inciampa, incespica e, lentamente ma inesorabilmente, distrugge tutta la struttura che ha edificato. Solo al momento in cui il disastro sarà avvenuto l’attore diventerà in grado di leggere il contenuto del foglio, contenente un’asciutta poesia di Matteo Marchesini che narra del giorno in cui tutto finisce e resta al suo posto solo la nuda verità, senza più alcuna finzione consolatoria (cfr. Un giorno, in «Ampio raggio», 9, 2021, pp. 14-16).
Già questa parafrasi solleva un primo problema interpretativo. L’invettiva coincide con le parole che chiudono l’installazione, il che significa che la dinamica scenica serva a creare un vuoto in cui esse possano risuonare con forza? O è l’intero processo di edificazione e distruzione del reticolo di corde ad assolvere questo ruolo? In linea con la poetica di Laminarie, che predilige alle parole il non-detto, all’espressione razionale/concettuale la suggestione estetica, credo sia più probabile dire che l’invettiva sia scagliata dalla composizione nel suo complesso. Più che davanti a uno spettacolo, pare trovarsi di fronte a qualcosa di simile a un quadro astratto di arte contemporanea. L’astrazione trascende il senso e la figura in movimento di Febo genera una visione che eccede il linguaggio.
Ma allora perché questa invettiva è detta “inopportuna”? Qui giova approfondire la nozione stessa di opportunità. Un discorso o gesto è definito inopportuno in base alla persona o istituzione che fa da destinatario, al tempo, o al contenuto, o di un insieme di questi tre fattori. Invettiva inopportuna mi sembra cadere in questa quarta categoria.
Un’invettiva è inopportuna rispetto a una persona o un’istituzione se si scopre che l’attacco che le stiamo muovendo contro non è efficace, oppure se ci si accorge che si sta attaccando un amico, o persino che indirettamente si sta complottando contro sé stessi. Il lavoro di Laminarie dischiude una situazione ambigua. L’oggetto di invettiva è infatti il teatro, vale a dire l’arte che Laminarie ha deciso di coltivare e cercato di curare/costruire in un mondo ostile. Ciò permette di aggiungere che l’attore incappucciato che si muove nel reticolo e genera ora suoni armonici, ora disarmonici, coincide con l’artista che si pone in termini ora concilianti e ora oppositivi verso la società con cui deve relazionarsi. Ma se è vero, allora la sua invettiva è inopportuna in un primo senso perché si distrugge da sé, durante i suoi tentativi di opporsi al mondo esterno che lo isola e lo imprigiona nell’irrilevanza. Sebbene la battaglia dell’artista sia giusta, essa è anche tragica: una sua vittoria sarà al contempo una sconfitta. Come l’eroe Erisittone del mito, la sua fame di senso e di riscatto si placa solo con una terribile autofagia.
Il secondo senso per cui l’invettiva può essere detta inopportuna – il tempo – è invece più intuitiva. Essa manca di opportunità quando arriva troppo presto, per esempio se la si rende pubblica quando ancora non ha argomenti solidi e affilati a suo sostegno, o troppo tardi, come quando si attacca una persona o istituzione che è ormai morta. Tornando all’installazione di Laminarie, pare si possa dire che la sua invettiva è inopportuna perché l’attacco alle miserie del mondo arriva fuori tempo massimo, quando ormai tutto è arrivato a un irreversibile processo di dissoluzione. La poesia di Marchesini che parla a tal proposito di un universo in frantumi sembra o parlare di un giorno molto prossimo ad arrivare, o persino che è già arrivato. L’installazione di Laminarie è allora o eco o anticipazione di un disastro che va solo constatato.
Infine, c’è da considerare l’inopportunità dovuta al contenuto. Questa si presenta laddove la violenza dell’invettiva supera le idee che dovrebbero sorgere al posto della prospettiva confutata, o se la forza di distruzione è maggiore della potenza generativa. Pare che il lavoro di Laminarie sia inopportuno anche da questo punto di vista. Ciò che emerge dalla poesia di Marchesini dopo che Febo ha distrutto il reticolato è, infatti, una voce che narra di un senso di vuoto, spalancato dalla dissoluzione di ogni abitudine, titolo, disposizione o sapere che veniva usato per nascondersi dalla verità atroce che l’essere umano è nulla, che è una creatura che soffre di limiti e debolezze evidenti. Il contenuto di Invettiva inopportuna è dunque nichilistico. Il vero consiste nella totale trasparenza della nostra inanità, che è stato possibile occultare a lungo, ma che ora affiora con nettezza.
Si potrebbe certo replicare che il lavoro di Laminarie si apre con un messaggio positivo: il motto di Claudio Meldolesi «Il teatro valorizza gli imprevisti», proiettato dal dispositivo scenico è tutto qui che funge da preludio di Invettiva inopportuna. Questo messaggio è vergato su di una ruota che comincia a muoversi sempre più velocemente su sé stessa, fino a diventare illeggibile, ma anche una luce in movimento. La dimensione semantica si dissolve e nasce al suo posto un’energia pura. In analogia a questo dispositivo, potremmo sostenere che Invettiva inopportuna segue un tracciato simile. Il messaggio nichilistico che svetta alla fine genera un’energia luminosa, che non si trova nel mondo dominato dalla menzogna, o dalla falsa significanza.
Benché questa ipotesi abbia una sua attrattiva, tuttavia, va anche notato che il portato energetico svanisce in poco tempo. La luce si spegne dopo aver raggiunto il massimo della velocità, e il buio torna presto a dominare la scena. Inoltre, l’imprevisto decantato da Meldolesi non può diventare un nuovo ordine, o il primo tassello di un sistema o costruzione, proprio perché è un imprevisto: un dettaglio dirompente che libera solo caos. Dal teatro quindi non può sorgere niente, perché per sua stessa natura è un nulla desolante.
In conclusione, Invettiva inopportuna porta una visione molto amara dell’arte e del mondo entro cui opera. Ma se una dimensione positiva c’è, nella negatività del dolore e dell’amarezza, è che essa porta con sé un sovrabbondare di consapevolezza. Quando ogni menzogna e il grande palazzo delle nostre certezze crollano miseramente a terra, resta solo lo svuotamento e la lucidità. Se ci restano solo macerie da contemplare, la colpa non è dell’artista, ma del fatto che un mondo che ha perso tutte le maschere di finzione non ha molto altro da offrire.
ENRICO PIERGIACOMI
Info: http://www.laminarie.com/