«Io ho studiato a New York, quindi i miei primi anni artistici lì ho vissuti in questa città. Conoscevo la Factory di Warhol e, in generale, tutto quel mondo. Collaboravo con Betty L’Innocente e con Marco Fioramanti, un critico molto vicino ad Anton Perich. È stato lui a darmi l’ispirazione di girare questo documentario», è iniziata così la chiacchierata con Mauro John Capece, il regista di In the fabulous underground, il documentario che racconta la vita straordinaria dell’artista, fotografo, pittore e regista underground Anton Perich attivo a New York a partire dagli anni Settanta. «All’epoca avevamo una factory con cui facevamo opere molto particolari e ricercate. Per cui abbiamo deciso di imbarcarci in questa storia».
Il film mette insieme tanti materiali visivi differenti. Come sono stati scelti?
«Eravamo a conoscenza che Perich teneva una grandissima parte di materiale della Factory di Warhol, quindi chiaramente sarebbe stato un peccato non far vedere anche lo stile che utilizza Anton. Realizzando fotografie col flash con le compattine nei locali notturni o utilizzando delle camere molto sensibili, sempre con una persona che faceva un’intervista o lasciando le persone libere di agire, Anton voleva far venire fuori la tristezza che si nascondeva dietro a quella vita e in generale in quel periodo di fine anni Settanta. Il materiale era bellissimo, c’erano personaggi noti visti però in una chiave diversa perché mentre la televisione ce li ha mostrati in modo molto patinato, lì invece erano underground. Lo stile era compatibile anche artisticamente con quello che sia io sia il co-regista Claudio Romano volevamo. Narrare un documentario in cui ci sono tanti tipi di stili comunque è molto contemporaneo».
A proposito di stile, ad un certo punto del film, Perich parla del suo stile di ripresa definendolo nervoso. Nel documentario si ritrova questo stile di ripresa un po’ sporco. È stato un approcciarsi allo stile dell’artista che state raccontando?
«Era il periodo in cui la guerrilla filmmaking stava venendo fuori anche in Italia. Era il modo corretto di narrare questa storia. Poi tra l’altro la stessa New York è una città che ti porta a realizzare dei film in quel modo. Infatti, se si guardano alcuni dei film indipendenti più importanti, in particolare newyorkesi, hanno uno stile molto aggressivo dal punto di vista visivo, con molte camere a mano. È stato questo il modo di approcciarci a questa storia. Però volevamo rimanere sempre nell’ambito della pulizia visiva, perché anche se lo stile è sporco rimane comunque curato e ricercato».
A proposito di New York, nel documentario spesso Perich viene ripreso mentre si muove e cammina per la città. Sembra quasi esserci l’intenzione di rendere New York una co-protagonista di questa storia…
«Sì, sicuramente. L’intenzione principale era di realizzare il diario di una vecchia New York che non esiste più, un diario segreto. Volevamo far vedere com’era New York prima. Poi il caso ha voluto che io conoscessi bene quei luoghi, perché ero stato lì, quindi è venuto tutto molto naturale. Chiaramente fare le cose più posate in quella situazione non avrebbe generato il giusto impatto. Ci voleva un po’ questo spiare la via di Anton e il suo passato».
Ad un certo punto del film Perich afferma che spesso non ha una storia in mente, ma si limita a riprendere delle persone e quel che accade. In questo documentario qual è stato il peso della sceneggiatura?
«Per dire la verità è stata molto importante. Noi sapevamo di dover acquisire tante interviste di Anton perché volevamo focalizzare il film prima di tutto su di lui, anche se ovviamente ci sono anche gli altri membri della Factory. La scrittura è stata molto importante: Betty ha realizzato un impianto testuale con i punti cardine da toccare e Marco Fioramanti ci ha resi edotti su alcune cose e domande che avremmo dovuto fare. C’era una progettualità molto precisa. Poi del montaggio se n’è occupato principalmente Claudio: anche lì c’è una scansione precisa degli avvenimenti e degli eventi. Avevamo insomma già un’idea ben precisa. È comunque un film che ha richiesto una trentina di giorni di lavorazione».
Ci sono nel documentario alcune scene in cui si parla di come realizzare il film stesso. Come mai?
«L’intenzione originaria era di fare un documentario che fosse un documento senza scadenza, siccome della Factory se ne parla ora ma se ne parlerà sempre. L’intenzione era di fare un documentario non scolastico, non televisivo, rivolto soprattutto agli artisti che oggi hanno molta meno libertà di quanto ce ne fosse allora negli anni Settanta. L’unico modo per entrare in empatia con gli artisti era quello di inserire del making of all’interno del film. Questa è stata l’idea che ci ha spinto a farlo. Lo stesso Anton infatti si rivolge spesso agli artisti. Il documentario, in generale, è un lavoro molto onesto dal punto di vista intellettuale».
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