È avvincente come una raccolta di fiabe, il nuovo saggio di Elena Giulia Rossi su bioarte, arte ecologica e post internet.
Come in quel caso, è pieno di avventure e di misteri.
E, come per la grande letteratura, costituito di precise parole a definire concetti e visioni come più chiaramente e sinteticamente non potremmo immaginare.
Abbiamo conosciuto l’autrice l’anno scorso in occasione di Ibrida Festival, a Forlì, manifestazione internazionale che da anni indaga con lungimiranza e rigore le forme che –nomen omen– fanno del limine, della soglia, del non circoscritto il luogo vitale e centrale di forme d’arte in divenire.
Vibranti sintonie.
Tornando al saggio: guizzo dell’intelligenza, affondo nel non definito, interrogazione allo sguardo, invito a «guardarsi guardare» si potrebbe dire, ancora una volta, con Merleau-Ponty.
Ancora una volta.
Eccoci al punto.
E all’ornitorinco.
Animale quanto mai indefinibile che, come Eco ci ricordava già un quarto di secolo fa, mette radicalmente in discussione i nostri schemi cognitivi, i punti di partenza su cui ci basiamo per classificare, o anche solo incontrare, il reale.
Ma che animale è?
Ma questa, è arte?
Riporteremo solo in parte, senza pretesa di esaustività, i moltissimi folgoranti autori e le opere dell’ingegno e della passione che il saggio sistematizza e ordina. Lo faremo nominando il rapporto di queste forme con il già noto -almeno per noi- della storia dell’arte e del pensiero: non certo per sfoggio di (minuscola) cultura ma, al contrario, per ricordarci che la strada per affrancarsi dal già noto è lunga – e larga.
Una semplice lista, ma che in noi provoca vertigine (Eco, ancora).
Alessandro Scali e Robin Goode, artisti che lavorano sul micro, in Chiave del paradiso (2007) incastonano un cammello nella cruna di un ago. Vien da pensare alla colta ironia dadaista, con il correttivo tecnologico che permette ai due artisti di creare in nano scala: citare frammenti dell’immaginario collettivo e inserirli in un discorso altro, rivelandone nuovi significati. E costringendo, per fruire l’opera, ad aguzzare lo sguardo: esercizio di attenzione, arte come atto estetico e dunque, letteralmente, conoscitivo.
Passando da conigli fosforescenti, da trasferimenti di DNA umano su piante e da Nature? di Marta de Mesenez, opera transgenica in cui una delle ali di una farfalla vivente è modificata per problematizzare e risignificare l’ormai obsoleta dialettica natura-cultura, si arriva a May the horse live in me (2011) del duo Art Orienté Objet in cui, in un rapporto di comunicazione biologica con un cavallo, le immunoglobuline dell’animale sono trasfuse nel copro dell’artista. Come un Joseph Beuys riveduto e corretto la tecnologia (in questo caso biomedica) permette di spostare in avanti il limite (etico ed estetico) della ricerca di sconfinamento, simbiosi e naturalità del grande artista tedesco.
L’immaginazione è al potere, come in molti slogan battaglieri di qualche decennio fa, anche per Computer sigillati di Maurizio Bolognini: essi producono flussi di immagini, ma non li si può vedere – solo, appunto, immaginare.
A proposito di slogan: certo il nuovo (ipertecnologico) sguardo sul mondo che gli artisti e le opere analizzati nel saggio propongono non è scevro da una sensibilità politica, letteralmente rivoluzionaria.
Dunque, atta a un rovesciamento.
Dello sguardo: dei propri occhi, si potrebbe dire con Giuseppe Penone.
Così, le tempeste sonorizzate da Andrea Polli sono forse figlie degli intonarumori di Russolo, in una analoga, anche se tecnologicamente aggiornata, attitudine inclusiva: l’opera è il mondo.
Lava Floor (2002) di quel geniaccio di Olafur Eliasson, che obbligava a «camminare su un malfermo pavimento di pietre vulcaniche mobili, facendo attenzione ai loro spostamenti» riprende della celebre installazione Yard di Allan Kaprow (1961) la tensione dell’opera a porsi come attivatrice di esperienze (extra)quotidiane, a favor di sensibilità.
Le ragnatele di Saraceno si affiancano a quelle di Duchamp nell’incoraggiare a percepire una realtà larga, costituita da innumerevoli ancorché spesso invisibili connessioni, mentre nel progetto Life Sharing (2001) di Eva e Franco Mattes, in cui i due artisti mettono a disposizione di chiunque tutti i file contenuti nei loro computer, risuonano l’estroflessione, le nudità e il rapporto artistico con il pericolo della Abramović: corpi-teatro, di carne o digitali, che si (pro)pongono come il punctum del discorso dell’arte e sull’arte.
Tanto altro si potrebbe (e forse dovrebbe) scrivere su questa enciclopedica analisi delle più recenti manifestazioni dell’opera dell’arte -per dirla con Genette- ma per ora ci fermiamo qui, con gratitudine per coloro che hanno ulteriormente allargato il nostro sguardo, ben consapevoli che tanto è ancora da fare.
Tu es le fils de quelqu’un diceva Jerzy Grotowski, uomo saggio.
Elena Giulia Rossi, Mind the Gap, postmedia books, 2020, 192 pp., € 21 – info