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«Dire qualcosa è sempre fare qualcosa»: John Langshaw Austin nel 1962 teorizzava il linguaggio come atto.
Partire da qui per condividere qualche pensiero su due proposizioni andate in scena negli stessi giorni nelle due sale dell’Arena del Sole di Bologna: creazioni antitetiche ma in un certo senso complementari, almeno nell’accezione suggerita in apertura di queste righe.
L’armata Brancaleone è il titolo dello spettacolo diretto da Roberto Latini, che attraversa la scena insieme a un manipolo di attrici e attori di grande carattere, a lui vicini: Elena Bucci, Ciro Masella, Claudia Marsicano, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Marco Sgrosso e Marco Vergani.
Vogliamo tutto! è il titolo dello spettacolo di ErosAntEros, diretto da Davide Sacco e interpretato da Agata Tomšič, che in scena si fa attraversare da molte voci militanti, protestanti, arrabbiate di ieri e di oggi, a cinquant’anni dal mitico Sessantotto (lo spettacolo è del 2018).
Due creazioni sceniche che più diverse non si può, ma il cui accostamento ne può reciprocamente illuminare alcuni aspetti, forse.
Entrambe trovano avvio da parole -com’è noto non è cosa scontata, in questo tempo di post-tutto– e sembrano individuare una possibile declinazione o senso ultimo del loro esistere nel movimento, nell’andare.
Sono parole, nell’uno e nell’altro caso, di origine e consistenza popolare (usiamo questo aggettivo consci dell’ampiezza, dunque della potenziale vaghezza, che porta con sé): cultura bassa, si potrebbe dire secondo la vetusta contrapposizione con quella cosiddetta alta.
In ogni caso: son parole pastose, pregne di carne e sudore, quelle che i due spettacoli trattano per sottrazione e, al contempo, moltiplicazione.
Sottrazione. Là dove L’armata di Latini espunge il terrigno e multiforme paesaggio depositato nel nostro immaginario cinematografico sostituendolo con una scenografia geometrica abitata da funzioni sceniche trattate come tanti ii, per dirla con Sanguineti, la veemente protesta di ErosAntEros sottrae il costitutivo noi, elemento essenziale di quel modo di relazionarsi col mondo, ponendo al centro io vasto, che contiene moltitudini, si potrebbe dire questa volta con Whitman.
Moltiplicazione. In questi casi, trattando materiali sedimentati nell’immaginario condiviso, qualunque cosa se ne pensi, questi spettacoli agiscono scientemente sugli schemi cognitivi con i quali -consapevolmente o meno- ci rapportiamo alle forme del mondo.
Quando parliamo di cani, gatti, mele o sedie abbiamo bisogno di categorie, che gli schemi cognitivi, appunto, ci aiutano a creare: per attribuire un significato a qualcosa bisogna riuscire a inquadrarlo, a metterlo in una cornice, a dargli un’etichetta. Uno dei modi, nel mondo dell’arte, per inquadrare un’opera è collocarla in un determinato genere: è una nozione da tutti noi continuamente utilizzata, anche se spesso in maniera inconsapevole, come strumento per individuare caratteristiche testuali a cui riferire significati. Quando andiamo al cinema -ad esempio e a proposito de L’armata Brancaleone– sappiamo che stiamo vedendo un melodramma, un western, un horror, un classico, un moderno, un postmoderno, un action movie, una commedia all’italiana o chissà che altro e, a partire da questa etichetta, possiamo ad esempio valorizzare il film proprio per l’individuazione di una variazione, di uno scarto, rispetto al genere in cui lo abbiamo incasellato.
È un meccanismo che, inevitabilmente, ha luogo anche incontrando spettacoli teatrali che prendono le mosse da materiali tanto sedimentati in ciascuno (come non pensare -un esempio fra mille possibili- al geniale Cappuccetto Bianco di Bruno Munari?).
Il musicologo americano Peter Kivy definisce il meccanismo del «nascondi e cerca» (che costituisce, a suo avviso, uno dei piaceri della fruizione musicale e, in seno al nostro piccolo discorso, crediamo possa essere adatto a entrambi gli spettacoli presi in esame): l’inserire, da parte del compositore e/o dell’esecutore (qui: i registi), la melodia o il tema principale in una struttura più o meno altra, permettendo gradualmente al pubblico di ri-conoscerle. Di conoscerle di nuovo. In questa dinamica il compito degli artisti è quello di variare queste melodie, nasconderle, alterarle, smembrarle offrendo agli ascoltatori “rebus sonori” da risolvere. Da parte dell’ascoltatore (qui: dello spettatore) il massimo piacere si colloca in una strada intermedia fra l’atteso e l’inatteso: se gli eventi musicali di un’opera o di un concerto sono tutti completamente conosciuti l’esperienza sarà prevedibile, dunque noiosa. Qui si tratterebbe in un caso di mera trasposizione teatrale di un film, nell’altro di dar voce a slogan in parte consumati. D’altra parte, se gli accadimenti a cui si è sottoposti sono tutti sorprendenti la performance risulterà caotica e l’ascoltatore (spettatore) sarà frustrato in quanto non avrà alcuna possibilità di costruire una propria strada all’interno dell’esecuzione esperita.
La moltiplicazione che questi spettacoli efficacemente realizzano ha profondamente a che fare con la realtà, sia essa quella vociante delle piazze o quella stramba -patafisica, è stato detto- dell’armata: l’avventura di queste creazioni, la loro potenza di illusione e smascheramento sta nella capacità di negare il reale così com’è opponendovi un’altra scena (un altro mondo) possibile/plausibile, o almeno sognato, in cui le cose obbediscano a una regola del gioco altra e alta, etica ed estetica.
Sono spettacoli abitati da figure trascendenti (termine qui usato con tutto lo slancio carnale insito nella sua etimologia): che eccedono i propri limiti, la propria pochezza umana o, meglio, che in maniera commovente ci provano, sapendo che non è dato loro riuscirci.
Figure donchisciottesche, son quelle che danno carne e fiato a questi spettacoli, tese senza posa a raggiungere la loro forma ideale, fosse pure quella della loro distruzione.
Questo è il viaggio, questo l’andare che li accomuna.
Certo tanto altro si potrebbe (dovrebbe?) dire sul teatro politico che da oltre dieci anni ErosAntEros va costruendo, nella sua doppia accezione di uso politico del teatro (in questo caso, in primis, nel valorizzare persone e contenuti solitamente esclusi dalla Cultura) e teatro con contenuti politici espliciti (e coraggiosi), così come tanto altro si potrebbe aggiungere sulle citazioni dell’armata, da Star Trek a Kantor a Petrolini, sulla consistenza dei corpi che abitano quello spazio rarefatto: piccoli pieni in mezzo a un grande vuoto, per stare un po’ con Beckett.
Ma per ora, forse, basta così.
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MICHELE PASCARELLA
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Info: https://bologna.emiliaromagnateatro.com/, https://www.fortebraccioteatro.com/, http://erosanteros.org/
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