Note sull’Orestea fumettistica e popolare di Accademia Perduta

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L'Oreste _ ph Tommaso Le Pera

«Mi sono gettato sul testo, a divorarlo come una belva, in pace: un cane sull’osso, uno stupendo osso carico di carne magra, stretto tra le zampe»: vien da pensare a Pier Paolo Pasolini, alla sua Orestiade di Eschilo, leggendo l’appassionata introduzione al libro (pubblicato in occasione della prima nazionale dello spettacolo L’Oreste) di Francesco Niccolini, prolifico drammaturgo che ha composto una tragedia colta e popolare con e per un attore di lunga esperienza, Claudio Casadio, e un illustratore, Andrea Bruno, con la regia di Giuseppe Marini.

Vi si pensa per la pasoliniana sfrontatissima mancanza di timore nel mescolare cultura alta e bassa, o meglio: per quel suo trovare in primis nel mondo popolare forme e spinte atte a dar corpo alla Cultura.

Declinazione massimamente estroflessa del proteiforme apporto che la fragilità mentale ha, almeno da Artaud in poi, fornito all’immaginario e alla pratica teatrali, questa Orestiade contemporanea si presenta allo spettatore con una quantità di segni convergenti tesi a significare in direzione didascalica, dunque letteralmente esplicativa, la vicenda di un internato in Ospedale Psichiatrico alle prese con una quotidianità fatta di minuzie e fantasmi, consuetudini e ossessioni, in un racconto autobiografico che come su un piano inclinato non può non portare al suicidio dell’attore in scena: ha i caratteri dell’ineluttabilità tragica, ancorché smussata da una morbida ironia sottotraccia, il mondo di significati che questo spettacolo istituisce.

Il netto lavoro attorale di Claudio Casadio, innanzi tutto, ma anche le musiche e le luci avvolgenti che illustrano le diverse atmosfere, la scenografia atta a rappresentare la camera di degenza / detenzione e, soprattutto, i fumetti dai tratti marcati che raffigurano i personaggi con cui il protagonista dialoga senza posa, moltiplicando le presenze e le consistenze sceniche, costituiscono un sistema di segni pienamente intelligibile: fin dal titolo, L’Oreste sembra dialogare in maniera esplicita e intenzionale con un pubblico, e una tradizione, genuinamente popolari.

Vien da pensare, ancora, a Pasolini, alle sue marionette cinematografiche, o a certe maschere della Commedia dell’Arte di fronte alla recitazione intrisa di minimali scatti, stop repentini e millimetriche rotazioni della figura, in un patto scenico schietto e “artigianale” costruito, come direbbe Ennio Flaiano, «con quella pacata amara indifferenza dell’attore che conosce i polli della sua platea».

L’Oreste si colloca in un alveo affatto teatrale: si è pienamente nell’ambito della rappresentazione, resa plausibile da una convergenza di significanti a dar consistenza e piena legittimità a un allestimento che fa della follia -e della sua traduzione scenica- qualche cosa di concreto, definibile, dunque non respingente.

MICHELE PASCARELLA

Visto al Teatro Goldoni di Bagnacavallo il 25 ottobre 2021 – info: https://www.accademiaperduta.it/l_oreste-1860.html