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È da tanto che voglio scrivere qualcosa sulla durata,
non un saggio, non un testo teatrale, non una storia –
la durata induce alla poesia.
Voglio interrogarmi con un canto,
voglio ricordare con un canto,
dire e affidare a un canto
cos’è la durata.
Quante volte ho avvertito la durata
nei primi segni di primavera alla Fontaine Sainte-Marie,
nel vento notturno della Porte d’Auteuil,
nel sole estivo del Carso,
nell’incamminarmi all’alba verso casa dopo un’intesa.
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Pare appropriato all’oggetto, nel restituire qualche breve nota su due recenti opere dell’ingegno -e del cuore, e della passione- di Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi (aka Ateliersi) procedere per via rizomatica, stando fenomenologicamente «molto vicini alle cose», come avrebbe detto Luciano Anceschi.
Un minuscolo discorso, questo, che tenta di accordarsi a due forme culturali in cui ci siamo imbattuti nelle ultime settimane, tra loro difformi per medium utilizzato eppure accomunate da un’analoga radicale interrogazione alla postura (del) guardante nello smuovere con diversi gradi di ironia (dunque, socraticamente, di distanza) il rapporto dell’immagine con il proprio farsi.
Due oggetti difficilmente classificabili, un libro e un’esperienza di realtà virtuale, che interpellano la percezione e l’intelligenza di chi li incontra.
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Quel senso di durata, cos’era?
Era un periodo di tempo?
Qualcosa di misurabile? Una certezza?
No, la durata era una sensazione,
la piú fugace di tutte le sensazioni,
spesso piú veloce di un attimo,
non prevedibile, non controllabile,
inafferrabile, non misurabile.
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La mappa del cuore di Lea Melandri VR trasduce per lo sguardo del principe l’omonima creazione scenica di Ateliersi fruibile frontalmente, in maniera tradizionale, come spiegato sul sito della Compagnia: «Ateliersi sperimenta il linguaggio della realtà virtuale proponendo una diversa modalità di fruizione – intima, individuale, immersiva – del suo spettacolo La mappa del cuore di Lea Melandri. A metà degli anni ‘80 il settimanale Ragazza In fece la scelta dirompente di affidare a Lea Melandri, figura tra le più significative del femminismo italiano, una rubrica di corrispondenza in cui lei, anziché rispondere direttamente a chi scriveva, apriva un confronto con le giovani lettrici e i giovani lettori, creando – di fatto – un primo network sociale. Seguendo la “scandalosa inversione tra individuo e cultura” perseguita da Lea, Ateliersi conduce un viaggio emotivo attraverso quelle lettere intrecciando le urgenze e gli ardimenti sonori di allora con le risonanze presenti».
Pare opportuno sottolineare come l’esito di questa rigorosa e stratificata ricerca artistica si nutra di mondo -non solo di accademia- e come l’opera non si ponga tanto come rappresentazione del quotidiano (della vita), quanto come un suo peculiare frammento: una caratteristica anche di altre creazioni dell’ensemble ma che, ci sembra di poter affermare, in questo caso giunge a piena sintesi.
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La mappa del cuore di Lea Melandri VR è un esercizio di re-citazione (dunque di ri-nominazione) di un frammento di mondo e di storia: al centro del teatro che ciascuno spettatore va costruendosi nella mente e negli occhi sta la distanza tra ciò che si sa / che si ricorda e ciò che è dato a vedere.
È uno sguardo prismatico, quello incoraggiato da Ateliersi, difficile e nutriente proprio in quanto non (si) chiude in semplificanti classificazioni, messaggi o anche solo univoche narrazioni.
«La carne si fa specchio, dandoci l’illusione di lasciarci, più che nelle altre parti del corpo, accostare all’anima» scriveva Marcel Proust in All’ombra delle fanciulle in fiore: parole appropriate per questo spettacolo-viaggio in cui attraverso quelli che per qualcuno potrebbero essere solamente giornaletti e dolori adolescenziali ci si approssima a qualcosa di più largo, finanche universale.
Detto altrimenti: mandando al diavolo la consueta quanto sterile distinzione tra cultura alta e bassa, tra ciò che è arte e ciò che arte non è, questa esperienza -che pone il fruitore al centro dell’accadimento scenico tra gli attori, la cantante e i tecnici- propone una salutare rivoluzione dello sguardo. Una spiazzante assunzione di responsabilità: una cosa esiste (nel mondo strambo e al contempo plausibile racchiuso nel visore 3D) fintanto che la si guarda, fintanto che non la si esclude dal campo visivo.
Semplice ma radicale.
Semplice e radicale.
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Inutile forse dire
che la durata non nasce
dalle catastrofi di ogni giorno,
dal ripetersi delle contrarietà,
dal riaccendersi di nuovi conflitti,
dal conteggio delle vittime.
Il treno in ritardo come al solito,
l’auto che di nuovo ti schizza addosso
lo sporco di una pozzanghera,
il vigile che col dito ti fa cenno
dall’altro lato della strada, uno con i baffi
(non quello ben rasato di ieri),
la morchella che ogni anno rispunta
in un angolo diverso nel folto del giardino,
il cane del vicino che ogni mattina ti ringhia contro,
i geloni dei bambini che ogni inverno
tornano a pizzicare,
quel sogno terrorizzante sempre uguale
di perdere la donna amata,
l’eterno nostro sentirci improvvisamente estranei
fra un respiro e l’altro,
lo squallore del ritorno nel tuo paese
dopo i tuoi viaggi di esplorazione del mondo,
quelle miriadi di morti anticipate
di notte prima del canto degli uccelli,
ogni giorno la radio che racconta un attentato,
ogni giorno uno scolaro investito,
ogni giorno gli sguardi cattivi dello sconosciuto:
è vero che tutto questo non passa
– non passerà mai, non finirà mai –,
ma non ha la forza della durata,
non emana il calore della durata,
non dà il conforto della durata.
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È con rigore e attitudine microstoriche che Andrea Mochi Sismondi ha curato una pubblicazione monumentale, che rimette in circolo la mastodontica forza propulsiva che la strage di Ustica ha impresso alla «battaglia per la verità» che ne è scaturita.
L’aspetto più commovente di questo volume -aggettivo qui usato nel senso etimologico del far muovere insieme chi scrive e chi legge- è l’intreccio sapiente, millimetrico di intelligenza e passione, nel disegno che regola l’articolazione della pubblicazione e dei dialoghi.
In un’accezione affatto contemporanea pare corretto inscrivere la curatela di questo teatro-in-forma-di-libro tra le opera artistiche di Mochi Sismondi, secondo un’idea e una prassi secondo cui l’artista non è prioritariamente identificato dalla téchne quanto dall’attenzione, non dal saper fare ma dal saper (voler) vedere. Duchamp docet.
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Sulla durata non si può fare alcun affidamento:
nemmeno la persona religiosa
che va ogni giorno a messa,
neppure chi è paziente, l’artista dell’attesa,
nemmeno colui che ti è fedele
e che senza esitazioni sarà sempre con te,
può averne la certezza per tutta la vita.
Credo di capire
che essa diventa possibile solo
quando riesco
a restare fedele a ciò che riguarda me stesso,
quando riesco a essere cauto,
attento, lento,
sempre del tutto presente sino nelle punte delle dita.
E qual è la cosa
a cui devo restare fedele?
Essa ti apparirà nell’affetto
per i vivi
– per uno di loro –
e nella consapevolezza di un legame
(anche soltanto illusorio).
E questa non è una cosa grande
particolare, non è insolita, sovrumana,
non è guerra, non è un allunaggio,
non è una scoperta, un capolavoro del secolo,
la conquista di una vetta, un volo da kamikaze:
io la condivido con altri milioni di persone,
con il mio vicino e allo stesso tempo
con gli abitanti ai margini del mondo,
dove grazie a questo fatto comune
si crea lo stesso centro del mondo
che è qui accanto a me.
Sí, questo fatto dal quale con gli anni scaturisce la durata
è di per sé poco appariscente,
non fa conto parlarne
ma è degno di essere affidato alla scrittura:
perché dovrà essere per me la cosa piú importante.
Dovrà essere il mio vero amore.
E io,
affinché da me nascano i momenti della durata
e diano un’espressione al mio volto rigido
e mettano nel mio petto vuoto un cuore,
devo assolutamente esercitare
un anno dopo l’altro
il mio amore.
Restando fedele
a ciò che mi è caro e che è la cosa piú importante,
impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni,
sentirò poi forse
del tutto inatteso
il brivido della durata
e ogni volta per gesti di poco conto
nel chiudere con cautela la porta,
nello sbucciare con cura una mela,
nel varcare con attenzione la soglia,
nel chinarmi a raccogliere un filo.
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Quel che ci sembra maggiormente emergere, da questa entusiasmante lettura, è il trinomio immanenza- trascendenza- relazione.
Immanenza e trascendenza sono due modi d’essere (non esclusivi ma, appunto, complementari) propri di quest’opera (di ogni opera, si potrà facilmente obiettare): il primo riguarda il suo consistere, materiale o ideale/progettuale (le decine di dialoghi e di opere presentate, il numero di pagine di questo libro, ecc), mentre il secondo concerne i modi con cui quest’opera può trascendere (vale ricordare che questo verbo, nell’etimo latino, rimanda all’atto fisico dello scavalcare) il legame con ciò che la manifesta.
La relazione, infine, è l’elemento che può rendere artistico, e non solo estetico, ciò di cui si parla.
Se quanto appena affermato è vero in molti casi, per questa opera pare esserlo in maniera lampante, in special modo per il suo problematizzare la propria consistenza.
In cosa consiste, ad esempio, La Venere di Milo?
In un blocco di marmo alto 202 centimetri scolpito da Alessandro di Antiochia nel 130 a.C. visibile al Museo del Louvre a Parigi. Si potrebbe dire qualcosa di più, o di meno, senza sfiorare ancora la funzione (rappresentativa, storica, artistica, comunicativa, simbolica) di questa scultura.
Ciò sarebbe sufficiente a evocare la meraviglia o, più esattamente, il valore attribuito a tale capolavoro?
Probabilmente no, anche se, in tutta evidenza, l’opera d’arte Venere di Milo coincide con il blocco di marmo di una certa forma, peso e dimensione che la manifesta.
Cosa manca, dunque?
La relazione: il valore simbolico, storico, economico, formale che alcune persone (storici, critici, appassionati) nel corso del tempo hanno riconosciuto a quell’oggetto.
«L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte»: così Sir Ernst Hans Josef Gombrich apriva la sua monumentale Storia dell’arte.
Ma al di là di cavilli per cultori, il principio sembra valere anche per questa rigorosa e visionaria utopia di verità, memoria e attivazione: senza relazione (con i luoghi, i fatti, le persone, le discipline) non si va da nessuna parte.
Così come una musica, che non consiste veramente solo in uno spartito o in un’esecuzione strumentale ma che necessita di quello spartito e di quell’esecuzione per manifestarsi, il racconto di ciò che l’esplosione di Ustica ha generato non può che incarnarsi nelle manifestazioni fisiche (siano esse aeroplani o corpi biologici, luci o pagine, spettacoli o quadri, pensieri o progetti) di quegli oggetti ideali.
Ecco forse una possibile funzione di questo libro: essere testimonianza e rilancio di una comunità, letteralmente, inevitabile.
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Resta vero:
la durata non è un’esperienza collettiva.
Essa non forma un popolo.
E tuttavia nello stato di grazia della durata
finalmente non sono piú io solo.
La durata è il mio riscatto,
mi lascia andare ed essere.
Animato dalla durata
io sono anche quegli altri
che già prima di me sono stati sul lago di Griffen,
che dopo di me gireranno attorno alla Porte d’Auteuil
e tutti quelli con cui sarò andato
alla Fontaine Sainte-Marie.
Sostenuto dalla durata,
io, essere effimero,
porto sulle mie spalle i miei predecessori e i miei successori,
un peso che mi eleva.
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Dire grazie, almeno.
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MICHELE PASCARELLA
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[i versi in corsivo sono frammenti di Canto alla durata di Peter Handke, Einaudi, Torino, 2016 – composto a Salisburgo nel marzo 1986]
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Info: https://ateliersi.it/ateliersi/portfolio_page/la-mappa-del-cuore-in-vr/, https://www.cuepress.com/catalogo/il-segno-di-ustica
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