Tanta è la strada da fare, sia in termini fisici che metaforici. Questo è il messaggio che emerge dalla visione del documentario Tanta Strada di Lorenzo K. Stanzani, il film prodotto da Orso Rosso Film e realizzato con il sostegno della Film Commission Emilia-Romagna. Lungo è infatti il cammino tra gli Appennini percorso dal gruppo di protagonisti e, metaforicamente, altrettanto lungo è il percorso che la società deve ancora compiere per guardare al tema della disabilità. Dopo la messa in onda su Rai2, il film, promosso da Rai Documentari e Rai per il sociale, è ancora disponibile su RaiPlay.
Come racconta il regista Lorenzo K. Stanzani, il tutto è partito da una semplice immagine: «Ero impegnato in un altro lavoro, sempre legato al vivere l’ambiente, e avevo contatto Don Antonio, alias Antonio Gramentieri, per commissionargli alcune musiche. Quando ho sentito una sua produzione mi è venuta in mente una persona con la sindrome di Down in bicicletta, perché era una musica tranquilla, polleggiata, sorniona, che si impegnava ma con leggerezza. E allora mi è tornato in mente un mio caro e vecchio amico, un mio vicino di casa affetto dalla sindrome di Down con il quale andavo spesso in giro in bicicletta per il quartiere. Così è nata la prima immagine del film: una persona in bicicletta sugli Appennini. Ho scritto allora su Google “Ciclismo disabilità Emilia Romagna” e mi è venuta subito fuori la Fondazione per lo Sport Silvia Parente e il progetto di Matteo Brusa. Il tema della disabilità mi è sempre appartenuto: ho sempre pensato che il vero valore della comunità fosse quello di non relegare delle categorie all’interno di strutture che sono solo per loro, perché di fatto è un modo comunque per esiliarli e non mostrarli».
In questo percorso su e giù per gli Appennini, tra percorsi impervi e strade più lastricate, lo spettatore segue le vicende dei protagonisti che a bordo delle loro biciclette, tandem e handbike, vivono in compagnia un’esperienza sportiva immersi nel verde e nelle bellezze della natura: «in origine c’erano anche delle riprese in città», racconta il regista «che però nel montato finale ho eliminato, perché ho capito che avrei rovinato quella situazione magica che ero riuscito a creare. Infatti, nel film si dice che siamo in Emilia Romagna, ma non si specificano i luoghi, perché volevo che fosse un non luogo, o meglio il contrario, il luogo dell’ovunque. Quello che conta per me non è dove sei e cosa fai, ma come lo fai e con chi. Volevo che si esprimesse al massimo il concetto di Comunità».
Nel filmare questa esperienza, l’obiettivo del regista era quello di raccontare la disabilità muovendosi all’interno di due binari, «da un lato evitare ogni forma di pietismo, che non vuol dire evitare il dolore e la fatica, e dall’altro evitare la celebrazione della persona con disabilità che però riesce a fare un sacco di cose. Avevo deciso di muovermi lontano ma in mezzo a questi due contrasti con cui solitamente viene raccontata la disabilità. La biciletta, come immagine visiva e cinematografica, mi dava l’idea di qualcosa di molto semplice ed umano che andasse dritto lungo un percorso. Da qui ovviamente anche il titolo Tanta Strada, che può avere tanti diversi significati: può voler dire tanta strada che abbiamo già percorso o che stiamo percorrendo, ma anche tanta strada ancora da fare».
I protagonisti sono molto naturali di fronte alla macchina da presa. Quanto era previsto in sceneggiatura e quanto invece sono stati lasciati liberi di esprimersi davanti alla camera?
«Di sceneggiatura c’è zero, nel senso che la mia idea era quella di realizzare un documentario d’osservazione, che consiste nel filmare una serie di situazioni senza intervenire in alcun modo. Avevo già iniziato due progetti simili, uno in carcere e uno con i bambini delle scuole, però a causa del Covid mi sono dovuto fermare. Con Tanta Strada volevo evitare alcuni limiti, alcuni potremmo dire “difetti” del documentario d’osservazione e per fare questo era fondamentale creare il set giusto. Occorreva quindi trovare i personaggi giusti, che non solo avessero qualcosa da dire, volessero dirlo e funzionassero davanti alla camera, ma che anche tra di loro potessero creare dei momenti forti. Infatti molti di loro non si conoscevano o si conoscevano appena. Questo per me era fondamentale perché volevo che lo spettatore vivesse, insieme a loro, l’esperienza della conoscenza. La storia non viene infatti raccontata presentando subito i personaggi, perché li si scopre man mano così come anche loro si scoprono durante le riprese. Quello che ho fatto nel preparare il set è stato creare una serie di incontri, eventi, situazioni che dovevano accadere e che fossero esperienze abbastanza inconsuete, come ad esempio il volo in mongolfiera. In questo modo chiunque di loro ha vissuto un momento che ha fatto scattare qualcosa di unico. Quindi di preparato non c’era sostanzialmente nulla, se non la scelta delle persone e la scelta delle esperienze da far vivere. Noi poi abbiamo ripreso quei momenti di euforia che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo vissuto. Loro poi sono stati straordinari, fanno sbragare dal ridere. Fanno una serie di dialoghi e battute che a volte sembrano veramente scritti. Sono pazzeschi».
Anche dal punto di vista tecnico, Tanta Strada è un progetto importante, girato in appena due settimane…
«Avevamo due troupe che potevano diventare quattro all’occorrenza, tutte con fotocamere Fujifilm X-T4, con le ottiche cine. In alcuni casi si è ricorso anche all’utilizzo degli zoom, per permettere una maggiore flessibilità all’operatore, mantenendo però una qualità cinematografica molto alta. Non abbiamo usato GoPro né camerine o camere fisse. Lungo i percorsi in alcuni casi abbiamo dovuto farli fermare, ma mediamente noi ci muovevamo in bicicletta, a piedi, in motorino e in furgone per anticiparli. Facevamo tipo la staffetta: avevamo preparato tutto il piano di riprese, definendo ogni camera in quale punto doveva spostarsi e posizionarsi di volta in volta. Abbiamo fatto un grande lavoro di organizzazione perché doveva essere tutto compresso, non solo per una questione di costi, ma soprattutto perché doveva essere tutto il più fluido e spontaneo possibile. Per esempio quando abbiamo fatto la scena del concerto live, la scena del primo brano cantato è l’unica che abbiamo girato due volte, per tutto il resto abbiamo fatto un solo ciak. Addirittura abbiamo posizionato dei fili nei boschi, tra un albero e l’altro, a cui abbiamo appeso delle telecamere che potevamo muovere avanti e indietro grazie a un sistema radiocomandato. Quei fili, insieme alle camere, dovevano essere montanti e spostati la mattina o il giorno prima. Un lavoro bellissimo da questo punto di vista».
Perché è importante che il cinema si faccia testimone di realtà come questa?
«Perché nulla come il cinema, negli ultimi decenni, è stato in grado di creare immaginari. Adesso forse un po’ meno, perché ci sono anche altri mezzi. Tuttavia creare immaginari è ancora uno degli aspetti che il cinema può fare. Il mio documentario non fotografa la realtà, ma ne suggerisce una possibile: quello che accade naturalmente è vero, ma non è consueto nel quotidiano. Suggerisce quindi un mondo possibile, invita a pensare alla sua attuazione. Si tratta, molto banalmente, di suggerire un’intenzione, un’indicazione, un modo di vivere. Credo che il cinema e i documentari debbano essere documentari d’autore, dove l’autore si prende la responsabilità di offrire il punto di vista. Oggi c’è un po’ la tendenza a deresponsabilizzarsi, quando invece, secondo me, per rispetto del mezzo e dei possibili pubblici, questo lavoro va affrontato con coraggio».