Sdraiato sul divano con un libro in mano (per la precisone La difesa di Luzin, di Nabokov), alle spalle una scacchiera e un paio di guantoni da boxe. Lui è Stefano Piedimonte giornalista e autore classe 1980 che ha da poco pubblicato per Rizzoli i Maginifici Idioti, un romanzo pungente in cui l’autore partenopeo presenta, con dimestichezza, un sottile umorismo capace di scuotere la coscienza di una società – parafrasando Carmelo Bene – popolata da Zombie. “Chi legge questo romanzo, ride con una punta di veleno, perché si rende conto di quanti fenomeni legati alla nostra società non funzionano”. La precisione con cui Piedimonte descrive il suo modus operandi, ricorda la dedizione di certi artisti dello sport: sudati, in salita, atterriti, sanguinanti, ma con quella scintilla nella pupilla che ricorda i sogni più lontani, quelli legati alle imprese.
“Che poi, parliamoci chiaro, chi è disposto oggi davvero a prendersi un cazzotto in faccia?”, risponde quando gli chiedo come nasce la sua passione per il pugilato. A dire il vero di passioni Piedimonte ne ha tante, ma è la scrittura la dimensione in cui si trova più a suo agio: un montante azzeccato in pieno mento. E si vede, si sente, si legge.
In questo tuo nuovo romanzo c’è un po’ di tutto: satira, alieni, risate a denti stretti, verismo e un po’ di Napoli, ovviamente. Cosa ti ha spinto a scrivere un libro con queste caratteristiche, magari distante dalle tue precedenti pubblicazioni?
“Sì, bisogna capire poi chi sono gli ‘alieni’, in realtà… Questo libro, a onor del vero, per quanto distante da alcuni degli ultimi romanzi che ho pubblicato, è la naturale prosecuzione di un mio percorso che era iniziato nel 2012 con il mio romanzo d’esordio, ‘Nel nome dello Zio’. Ho provato a riappropriarmi della mia cifra narrativa personale, scrivendo un libro con una consapevolezza diversa, credo, che pur trattando temi molto distanti da quelli del mio romanzo d’esordio usa l’umorismo come strumento di vendetta sociale. Chi legge il romanzo – e di questo sono molto contento – ride, ma sono risate velenose, che aumentano la rabbia verso alcuni fenomeni. A volte, è proprio vero, non ci resta che ridere, ma sarebbe ottimo se dopo aver riso ci armassimo anche della rabbia necessaria a combattere i molti cancri che infestano la nostra società”.
La squadra di idioti per certi versi mi ha ricordato quei poveracci guidati da Bruce Willis in Armageddon: alla fine il pianeta lo salvano, anche a duro prezzo. Nel film deviavano un meteorite, nelle tue pagine si cerca di risolvere un mistero alieno. Ti è piaciuto creare personaggi “sfigati” e opposti tra di loro, ma con uno scopo piuttosto rilevante? Ti sei ispirato a qualcuno?
“Mi è sempre piaciuto brutalizzare alcuni temi standard, alcuni modelli narrativi che ispirano una gran parte della produzione libraria, cinematografica e televisiva. Cosa succederebbe se il boss della camorra fosse un fanatico del Grande Fratello? (‘Nel nome dello Zio’), cosa accadrebbe se il serial killer fosse un povero analfabeta? (‘L’assassino non sa scrivere’), cosa accadrebbe se a sventare un’ipotetica minaccia aliena venisse inviata una squadra di ladri, influencer, camorristi e preti? (‘I magnifici idioti’). Per la creazione dei quattro protagonisti mi sono ispirato più che altro a dei modelli sociali che la fanno da padrona nell’attualità. Il ladro: la furbizia a scapito dell’intelligenza. Il picchiatore: la violenza come unico meccanismo relazionale. L’influencer: l’apparire a scapito dell’essere. Il prete: la religione come unica possibile (e facile) consolazione”.
Nel tuo racconto c’è anche il Presidente della Repubblica: un ultracentenario arteriosclerotico che prepara discorsi senza né capo, né coda. Quanto ti sei divertito a tratteggiare questo personaggio immaginandoti quelli “veri” rinchiusi nelle loro stanze con carta e penna in mano?
“Il personaggio del presidente della Repubblica mi ha ispirato subito molto tenerezza. Buono, vecchio, indifeso e, soprattutto, inoffensivo. I suoi corazzieri lo coccolano, lo accarezzano, gli leggono favole prima di metterlo a dormire… Ma anche lui, in qualche angolo del suo anziano cervello, custodisce un barlume di spietata arguzia. Chi leggerà, saprà”.
Parliamo un attimo di editoria: come dice il tuo collega, Diego De Silva, pare ormai che un libro, se deve vendere, lo farà subito, quando c’è aria di novità e promozione. I titoli restano sulla bocca dei lettori per poco tempo e fidelizzare i lettori è diventato quasi utopistico. Nel tuo caso, a parte la promozione, in che modo pensi di tenere vivo il mondo dei tuoi idioti?
“Diego è uno scrittore meraviglioso. Fra l’altro è stato proprio lui a scrivere la frase sulla copertina del mio romanzo. Personalmente, faccio il possibile perché il libro vada bene, mi spendo molto sui social e negli incontri dal vivo, che sono sempre troppo pochi. Nonostante ciò, ho sempre ben presente qual è il mio lavoro e soprattutto la mia passione: la scrittura. Non voglio preoccuparmi di quanto tempo impiegherà il mio libro a fidelizzare i lettori, se è troppo, se bisogna fare le corse, anche perché poi queste sono variabili dettate completamente dalla volontà dell’editore: se il tuo editore ha deciso di investire poco sul tuo romanzo, tu puoi sbatterti quanto vuoi, ma non cambierà nulla. Se succede che i lettori lo apprezzano, ne parlano, se le consigliano fra loro, in un mese o in cinque anni, va benissimo. Per il resto, la mia preoccupazione voglio che sia esclusivamente quella di scrivere bei libri. Già questo è complicato”.
Dovessimo fare irruzione in casa Piedimonte, quale libro troveremmo sul comodino?
“In questo momento sto leggendo La difesa di Luzin, di Nabokov, che nutre la mia passione per la letteratura e anche quella per gli scacchi, ma ho già pronto sul comodino (da troppo tempo) un libro scritto da Romano De Marco con lo pseudonimo di Vanni Sbragia, ‘Un po’ meno di niente’. E’ un giallo che si svolge nel mondo dell’editoria con intrighi, pettegolezzi, marciumi e miasmi che solo chi è pratico di questi lidi conosce bene e può raccontare. Già so che mi divertirò molto”.
Me la levi un’ultima curiosità? Ma perché gli scrittori, prima o dopo, finiscono con l’innamorarsi della boxe?
“In realtà oggi non sono molti gli scrittori appassionati di boxe, se per appassionati intendi persone che la pratichino con costanza perlomeno a livello amatoriale, se non agonistico. Penso a Lorenzo Scano, che come me ama il pugilato e ha un fratello pugile professionista. Il suo romanzo ‘Via libera’ è uscito recentemente per Rizzoli e tratta anche, per l’appunto, di boxe. Ce l’ho qui, e dire che sono curioso di iniziarlo è poco. Lo divorerò. Poi c’è lo scrittore e editore Antonio Franchini, mi sembra. La verità è che non sono in molti a volersi beccare un pugno in faccia, c’è poco da dire. E hanno ragione. Le persone che praticano la boxe sul serio, salendo sul ring e tornando spesso a casa piene di bitorzoli, sono poche. Vuoi dargli torto? Devi avere dei problemi per amare questo sport. O possedere un pochino di saggezza. Se sei disposto ad ammettere che l’essere umano cova in sé una certa dose di violenza, ma a circoscrivere questa violenza in un quadrato di cinque metri per cinque e a non farla uscire da lì, assolutamente, succeda quel che succeda, allora hai delle chance di essere una persona e un cittadino migliore. Il problema nasce quando uno crede di essere Paramhansa Yogananda e poi avvelena il mondo con le proprie gelosie, invidie, rivalità, cattiverie… Se la neghi, la tua violenza, s’infiltra nelle vite degli altri. Sfogarla sportivamente, con delle regole, in un recinto, con un’assicurazione e degli esperti che ti assistono in caso d’infortuni, può essere un buon compromesso”.