Entrare in empatia con ciò che vive. Conversazione con Sista Bramini | O Thiasos TeatroNatura

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Alla diciassettesima edizione del Festival Il Giardino delle Esperidi, che come di consueto ha abitato i borghi ed i sentieri del Monte di Brianza, l’ensemble ha preso parte con un dialogo, un concerto e uno spettacolo.

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È stata l’occasione per fare il punto su trent’anni di rigorosa pratica di libertà.

La visione di una pratica teatrale che possa avvicinarci agli esseri viventi che abitano e conformano gli spazi naturali diventa sempre più necessaria e forse perciò più condivisibile. Paradossalmente la pandemia mi ha fatto capire meglio l’inevitabilità dell’avanzamento tecnologico ma anche l’irrinunciabilità a una sua integrazione con una rinnovata cultura della presenza, del contatto, dell’incontro fisico, della relazione empatica con gli altri viventi: umani, animali, vegetali che siano. Sono partita dal bisogno e dall’amore per la letteratura e per l’arte teatrale, ho passato alcuni anni di formazione vicini all’educazione (dei bambini e degli adulti, fondando con Franco Lorenzoni la Casa Laboratorio di Cenci) dove ho potuto in certo senso incontrare il mio futuro pubblico nel suo desiderio di evoluzione, per poi distanziarmi dall’ottica prevalentemente educativa per approfondire la ricerca di un linguaggio artistico performativo nella natura. Oggi riscopro l’importanza formativa e la necessità esistenziale per ogni cittadino e ogni cittadina (compresi gli artisti) dell’ascolto silenzioso e all’erta negli spazi naturali, del danzare, cantare, raccontare in contatto con la natura. Riscopro la necessità di una formazione umana al canto, alla danza, alla parola teatrale e alla narrazione dei miti antichi che è stata parte integrante di tutte le culture per millenni ma che a noi oggi è negata o concessa in forma molto approssimativa e svalutativa nell’infanzia o, nella fase adulta, come addestramento alla prestazione industrializzata e competitiva. Penso invece che imparare a danzare, cantare e narrare bene in ascolto e con la natura sia fondamentale per creare appartenenza e comunità, capacità di stare insieme e collaborare come un unico corpo all’interno del più vasto corpo del pianeta. In più queste pratiche possono essere esperite e condivise in tutte le culture, possono essere parte di un progetto transculturale.  Mi viene in mente una frase che ho letto nel diario di Krishnamurti: «Camminavano chiacchierando tra loro nel bosco, inconsapevoli della magnificenza e della dignità degli alberi intorno, perciò probabilmente neppure tra loro c’era una reale relazione». Bisogna educarsi alla percezione di questa magnificenza e dignità e penso che il TeatroNatura possa aiutare.

Mi sono imbattuto per la prima volta nella vostra ricerca nei primi anni Novanta alla Casa Laboratorio di Cenci ad Amelia (anche grazie al racconto che Franco Lorenzoni ne ha fatto in alcuni suoi libri) e, nello stesso periodo, alla Fiera delle Utopie Concrete di Città di Castello. L’anno prossimo O Thiasos festeggerà trent’anni di lavoro. Puoi nominare un elemento sostanziale che è rimasto immutato e uno che è radicalmente cambiato, nella vostra ricerca nel corso del tempo?

È rimasta immutata, ma viva e dunque continuamente in trasformazione, la sete per la sorgente, la ricerca di qualcosa di dimenticato nella fretta di vivere, il desiderio di radicare l’azione teatrale il più possibile nel suo aspetto originario, partendo dall’impulso organico, dalla necessità vitale e di senso che muove un racconto, un canto, una danza, la relazione con lo spazio naturale circostante, l’incontro col pubblico presente.  Quello che è cambiato è che come gruppo teatrale rispetto alla formazione delle giovani attrici e attori non possiamo più allenarci tutti i giorni per arrivare a quella qualità tecnica e spirituale di ensemble che potevo perseguire quando ho cominciato. Non ci sono più le condizioni culturali e soprattutto economiche per farlo. Mi è difficile proporre a dei giovani di lavorare gratis per formarsi con quella dedizione, quell’abnegazione, quella motivazione che muoveva parte della mia generazione. Ma la lotta quotidiana per sottrarci all’abbassamento qualitativo, alla mercificazione del nostro lavoro e alla mancanza di competenza e dunque anche alla povertà di educazione teatrale del pubblico continua il più possibile e strenuamente, assieme però al desiderio di condividere e mettere a disposizione le pratiche di TeatroNatura consolidate in questi trent’anni.

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Nel tuo percorso un ruolo fondamentale ha avuto l’incontro con il Teatro delle Sorgenti di Jerzy Grotowski, che per sua propria natura di esperienza diretta e appartata è stato solo in parte conosciuto e dunque raccontato da storici e studiosi. Cosa accadeva concretamente, in quelle sessioni di lavoro? E cosa quel percorso ha cambiato in te?

Parlare di questo è in effetti difficile perché l’aspetto di esperienza personale era molto forte e decisiva era la presa di coscienza della sua intraducibilità. Sperimentavamo sulla nostra pelle come le nostre parole tendessero a occultare ciò che credevano di rivelare. Concretamente, per il mio cambiamento è stata fondamentale la pratica del silenzio. Stare interi giorni completamente in silenzio la maggior parte del tempo nella natura con altre persone, spesso sconosciute e di culture diverse dalla tua e che intorno a te che stanno in silenzio. A tutti era chiesto di essere presenti, lavorare a una continuità dell’attenzione sia ai fenomeni circostanti e a quelli interni. Concretamente si alteravano ritmi e abitudini ordinarie considerate “normali”. Si camminava lentissimi nel bosco o si correva a perdifiato nella notte in sentieri campestri; si girava con una guida in piccoli drappelli, per la campagna random, senza meta; si aspettava, girando lentissimamente su sé stessi, il trascolorare della luce dal tramonto fino all’arrivo completo della notte; Grotowski ci svegliava nel cuore della notte per parlarci, al risveglio si praticavano sequenze strutturate di movimenti collettivi. Si mangiava insieme in silenzio e non c’erano commenti tra noi su quanto accadeva, così che ognuno poteva seguire il filo del proprio processo esperienziale in solitudine ma tra gli altri che sapevi partecipanti alla tua stessa “spedizione”. Le azioni erano proposte a piccoli gruppi, individualmente o tutti insieme, mai più di dieci persone. E quelle azioni, come diceva Grotowski, erano la cornice: il quadro eravamo noi. Per me (ma credo anche per gli altri) era molto emozionante nel senso che ad un tratto, dopo aver passato momenti di crisi anche molto difficili, tutto diveniva meraviglioso, si formava un’intesa insolita, a volte molto intensa, tra le persone e spesso il cuore si apriva. Non ho certo imparato a fare il teatro da Grotowski perché non era quello che insegnava allora, ma a impegnarmi a fondo in qualcosa di semplice, radicato e senza lasciarmi distrarre dai miei pensieri, dai miei commenti o da opinioni che erano spesso lì solo per impedirmi di entrare e restare nel processo organico dell’esperienza. Si trattava di un esperimento transculturale e anche per questo trovo che fosse geniale specie rispetto i nostri tempi globalizzati.

Nel dialogo con Oliviero Ponte di Pino che ha avuto luogo al Festival Il Giardino delle Esperidi 2021 hai parlato di “scenografia archetipica”. Cosa intendi con questa espressione?

Quando ho cominciato la mia ricerca di teatro nella natura pensavo ingenuamente che almeno non avrei dovuto costruire scenografie, aspetto che non mi interessava molto. In realtà sono finita a dedicare molte energie alla qualità spaziale dei luoghi naturali in cui lavoravo, non per modificarli ma da una parte per coglierne gli aspetti intrinsecamente scenografici di composizione dello spazio per inserirvi le scene e dall’altra imparando una sorta di alfabeto di corrispondenze, equivalenze tra i differenti paesaggi in cui mi trovavo ad ambientare lo stesso spettacolo. Quasi da subito mi sono resa conto della convenzionalità della nostra cultura visiva e uditiva e che per aprire, trasformare la nostra percezione, bisognava anche qui tornare all’essenza, ad una fonte dimenticata, individuare e sintonizzarmi con gli elementi della natura che sono all’origine della scenografia stessa, che ancora agiscono nell’inconscio e sono “percepiti” prima ancora che “pensati”.  Sono elementi portatori di significati universali da cui abbiamo tratto le metafore con cui cerchiamo di parlare dell’ambiguità delle emozioni e delle atmosfere che attraversiamo e che ci attraversano. Le grotte, le zone ombrose e oscure, le improvvise radure illuminate, i campi assolati, i cunicoli declinanti o le vedute vaste dove lo sguardo si allarga senza focus e assorbe le immagini, il trascolorare della luce verso la notte o verso l’alba, i riflessi dell’acqua dei torrenti, i paesaggi sonori e le loro acustiche… tutti questi fenomeni (che la scenografia, la fonica e l’illuminotecnica teatrale imitano artificiosamente) predispongono, influenzano la nostra postura psicofisica di fronte all’esperienza, diventano contenuti performativi e drammaturgici che risvegliano sia negli spettatori sia nelle attrici e negli attori memorie corporali archetipiche o della prima infanzia. Si tratta di “atmosfere” che stanno a metà tra l’oggettivo e il soggettivo e sollecitano una membrana, viva e sensibile tra interno ed esterno, oggi atrofizzata perché troppo spesso sostituita dal continuo uso dei dispositivi digitali che sono qualcosa di ben confezionato e ben congegnato ma non “complesso” e cioè non in grado di captare la qualità irripetibile di un luogo in quel particolare momento o l’intesa particolare tra i viventi che lo stanno abitando. Il fatto che la natura in cui si svolge lo spettacolo diventi tutta spazio scenico inglobando sia attuanti che spettatori risveglia l’elemento rituale del teatro, l’atto umano collettivo che, al cospetto degli altri esseri viventi, delle forze della natura e del loro mistero, s’interroga su di sé.

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Quali accorgimenti specifici adotti, come regista, per far sì che il paesaggio che si attraversa non funzioni come fondale per incorniciare / abbellire le figure in scena (un po’ come accadeva con i fondali dipinti rinascimentali), ma sia piuttosto uno spazio vivo e complesso in cui immergersi con cura?

L’accorgimento è uno solo: le attrici e gli attori di TeatroNatura devono creare, nella continuità dell’attenzione e nella trasformazione della loro percezione, una relazione artistica e umana (non solo formale) con il paesaggio circostante e i suoi elementi vivi. Ci vuole molto allenamento. Si tratta di una sorta di mutazione antropologica della percezione: cantare ascoltando gli uccelli e il vento, narrare sentendo la presenza dell’albero che ti è accanto e della notte che arriva, muoverti percependo il fruscio delle foglie e che sei tra esseri vivi (alberi, uccelli, api, piccolo animali nascosti) e aprirsi alle sincronie imprevedibili,  alle corrispondenze tra i mutamenti del paesaggio vivo e quanto sta accadendo in scena e in te, stabilendo un’intesa con gli spettatori/testimoni. Niente di ideologico, dimostrativo o didascalico: se le attrici e gli attori sono teatralmente competenti e durante lo svolgersi dello spettacolo stanno incontrando quel paesaggio specifico contageranno il pubblico, che aprirà a sua volta la propria mente estetica, la sensibilità poetica, integrando nello spettacolo il paesaggio e gli esseri che lo abitano; più o meno consapevolmente. percepirà una sorta di omeostasi con lo spazio intorno, un equilibrio vivo dimenticato. Per me questo è andare verso un’arte oggettiva e umanamente necessaria.

La vostra pratica scenica -tra narrazione, canto, musica e movimento- è frutto di un evidentemente lungo e rigoroso lavoro di affinamento e studio quotidiano. In che modo ciò si configura come esercizio di libertà, per le artiste in scena?

Lo scopo di ogni arte è aprire spazi di libertà nella propria società. Questo avviene in parte tramite la libertà d’espressione che l’artista ottiene con l’accrescimento della sua competenza grazie al suo studio rigoroso e dopo aver lottato e svelato con coraggio e tenacia i condizionamenti del proprio carattere e della cultura del proprio tempo. Nel TeatroNatura abbiamo in più la possibilità di toccare quella libertà che si ottiene nel sentirsi parte di un organismo più vasto, vivo e misterioso. Con gli anni recitando in un bosco ho imparato a sentirmi sostenuta da quel bosco, a sentire il mio respiro parte del respiro di quegli alberi, non sono più sola sulla scena con tutta quella pressione egoica da dover sopportare… Non so spiegarlo ma anche per le mie colleghe è così: in fondo la vera libertà è quella dall’io, che ci contrae, ci tiranneggia e ci rende lontani dagli altri esseri. La paura prima di ogni spettacolo e all’inizio di un laboratorio c’è sempre ma è divenuta una sorta di felicità angosciosa dovuta soprattutto al senso di libertà e alla coscienza del rischio insito in ciò che vive e della responsabilità di farsi canale di qualcosa di più grande di noi e di necessario per la comunità presente. Devi fare il meglio che puoi ma appunto non sei “autrice”, sei canale, è una sensazione diversa. Dopo molto lavoro, l’atto performativo è liberatorio perché finalmente ti senti di agire come una parte, nel posto adatto a te.

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Artiste, si diceva: da molto tempo il vostro ensemble è composto essenzialmente da donne. È una scelta intenzionale o un’occasione? E soprattutto: qual è lo specifico femminile, nel rapporto scenico con il paesaggio?

Dico spesso che essere una Compagnia soprattutto di donne non è stata una scelta, ma neppure un caso. Si potrebbe parlarne a lungo. La donna, nella dicotomia tra cultura e natura è stata messa spesso dalla parte della natura. La mente patriarcale vede la natura come vede la donna. Ma la natura è percepita da noi attraverso una cultura specifica e forse le donne possono essere più predisposte a non ribadire questa contrapposizione deleteria tra cultura e natura e dunque a lavorare per una trasformazione della “cultura della natura”. Non c’è ideologia nelle nostre scelte, le nostre riflessioni partono da ciò che accade, dai problemi spesso pratici che incontriamo e che aprendoci al senso che assumono diventano soluzioni poetiche. Spesso abbiamo attori negli spettacoli e partecipanti uomini nei laboratori, ma nessuno di loro ha mai sposato davvero a lungo questa nostra poetica, questa nostra pratica. A volte hanno fatto un periodo di formazione con noi di cui sono grati e che a loro modo hanno portato nei propri progetti -come Michele Losi- e questo mi rende sempre felice. Ma è vero che sono sempre state delle donne a offrire tutte se stesse per lunghi periodi a questa ricerca e a permettere perciò il suo sviluppo. Scriverò un testo per parlare nello specifico dell’apporto di ciascuna di loro. Ma un tale sacrificio (anni di pionierismo solitario, senza riconoscimenti e con pochi mezzi) è possibile solo se la ricerca, pur nell’impegno spesso estremo che comporta, è anche profondamente appagante. Spesso nella natura, incontrata in modo profondo, queste artiste (naturalmente me compresa) sentono il richiamo della libertà. Non dobbiamo dimenticare che una bambina ad un certo punto, chi prima e chi dopo, si sveglia in una realtà distopica, quando scopre con stupore e tristezza profonda che il mondo in cui vive non è stato fatto per lei ma per i maschi. Ognuna per sopravvivere reagisce in modo diverso, sotterrando in sé più o meno “bene” quel trauma. Per noi che vogliamo fare il teatro, il TeatroNatura è uno spazio per ripensare il teatro stesso a cominciare da noi, dal nostro stupore, dal nostro bisogno di un modo contemplativo e performativo di entrare in empatia con la natura, con la nostra “biofilia” dimenticata e indagare, in un modo non ancora asservito alla mente patriarcale, la nostra propensione alla cura della Terra. Il discorso è profondo, interessante e non finisce certo qui, presuppone un cammino verso una trasformazione culturale.

Al Festival Il Giardino delle Esperidi 2021 hai presentato un curioso testo “pasoliniano” di Giovanni Pascoli. In quale occasione ti ci sei imbattuta e come hai lavorato per la sua messinscena?

A volte proprio nei progetti che nascono da un’esigenza pratica può farsi largo qualcosa di nuovo, da noi non ancora riconosciuto. Lo spettacolo Athene Noctua è nato per la manifestazione “Musei in musica” a Roma (Zetema), per la Casa delle Civette a Villa Torlonia: la direttrice di quel museo apprezza il nostro lavoro e speravamo che intercedesse per farci vincere il bando. Avevo lavorato con il trio ViolaContraKora in un altro spettacolo e, in varie occasioni, singolarmente con i musicisti che lo compongono (Camilla Dell’Agnola la violista, ad esempio, è nel TeatroNatura anche come attrice e cantante da vent’anni) e dunque contavamo sulla nostra amicizia artistica e umana consolidata. Mi ero imbattuta nel poemetto La civetta di Pascoli mentre, preparando lo spettacolo Viaggio di Psiche da Apuleio, stavo consultando la versione poetica pascoliana del mito di Amore e Psiche che si trova anch’essa nei Poemi Conviviali. Il poemetto La civetta, così vivido, mi aveva impressionato: dei ragazzini del popolo in una piazza assolata e degradata di Atene stanno tormentando una civetta che hanno catturato e ad un tratto si arrampicano uno sull’altro per vedere da un abbaino della prigione della città quanto accade dentro, diventando testimoni del momento in cui Socrate, circondato dagli allievi in lacrime, sta bevendo la cicuta. Vediamo perciò, in una scena crudele ma irresistibile, quasi pasoliniana, la morte di Socrate con gli occhi di quei ragazzini. In loro vedevo tutti noi che immersi nella nostra ordinaria crudeltà possiamo, grazie ad una visione profondamente umana, risvegliarci a un’altra realtà. All’inizio si trattava di una lettura del poemetto intervallato da musiche e canti struggenti soprattutto di area greca e grecanica (in parte conosciuti ma arrangiati in modo insolito: la viola e il contrabbasso dialogano con la kora africana). Questo accadeva subito prima della pandemia e pensavamo di presentare il lavoro solo in quell’occasione. Ma poi, proprio durante la clausura per l’incrudelirsi del virus, quella struttura performativa ha cominciato ad acquisire per noi un più profondo significato: è divenuta un’immersione nelle fonti, nelle radici musicali tradizionali, poetiche e filosofiche della nostra cultura, una sorta di atto di cura per la nostra civiltà malata. Allora ho lavorato sul testo imparandolo a memoria per incarnarne le risonanze che sentivo rispetto a quanto stiamo vivendo e vi ho inserito anche la poesia La civetta di Pascoli (ha lo stesso titolo del poemetto), in cui nel grido dell’uccello notturno vibra potente il tremito d’ogni vivente esposto alla morte. Poi, memori di quante volte in questi anni mentre si svolgeva uno spettacolo abbiamo sentito il richiamo della civetta farsi largo nell’oscurità notturna, abbiamo cominciato a presentarlo anche nella natura e all’imbrunire. Così Athene Noctua può ogni volta nutrirsi anche di quegli elementi. Lo presenteremo alla fine di agosto nel festival Gran Paradiso dal vivo, nel Parco nazionale del Gran Paradiso, appunto.

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Per concludere (e rilanciare): come immagini il futuro del vostro lavoro, in un mondo che sembra andare con sempre maggior vigore in tutt’altra direzione?

È la cultura egemone patriarcale a essere lanciata in tutt’altra direzione ma le sue contraddizioni, prime fra tutte il divario sociale, i disastri ecologici, si fanno sempre maggiori e insopportabili. La pandemia, incredibilmente, ci ha fatto fermare per un po’, abbiamo sentito più chiaramente la nostra fragilità di umani e, mescolato alla paura per la nostra sopravvivenza, il grido d’allarme e di sofferenza della natura, il bisogno fisico che abbiamo di lei, l’importanza organica del contatto nei rapporti umani e quanto la tecnologia sia sì importantissima ma non sia tutto. Questi aspetti sono stati esperiti individualmente e collettivamente da parte della popolazione mondiale e se la mentalità di chi ci governa non ne tiene davvero conto (d’altronde chi ha contribuito al disastro non può essere chi lo sana), la coscienza collettiva ha comunque avuto una scossa importante. La riconversione ecologica non potrà essere solo tecnologica ed economica, per un cambio di rotta c’è bisogno di una conversione culturale e sociale. Il compito dell’arte, se conta ancora qualcosa, è quello di averne la visione e incarnarla. Se il sapere organico del teatro si riconnette all’esperienza della natura, coinvolgendo cioè non solo l’apparato intellettuale della persona ma la sua sensorialità, l’emotività e l’affettività, esso può divenire una strategia educativa oltre che un risultato artistico. La vera rivoluzione sta nel muoverci oltre la contrapposizione tra cultura/natura, mente/corpo, ecc., correggere la nostra idea di esseri umani e finalmente imparare a vederci come animali naturalmente destinati alla cultura, in viaggio verso un radicale capovolgimento della nostra funzione: scoprirci non più giustificati predatori «dominatori dei pesci del mare e degli uccelli del cielo» (Genesi), ma esseri viventi culturalmente destinati alla natura. La natura è la nostra origine e la nostra destinazione. Solo così sopravviveremo e ci evolveremo. D’altronde Eraclito in un suo frammento dice: «Se uno non spera l’insperabile, non lo troverà, perché è impensabile, inaccessibile».

Grazie.

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MICHELE PASCARELLA

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info: https://teatronatura.it/, https://www.ilgiardinodelleesperidifestival.it/, https://www.campsiragoresidenza.it/

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