Note sull’edizione “di meduse, cyborg e specie compagne” diretta da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande | Motus.
Nella feconda molteplicità di esperienze offerte dall’edizione “2050” di Santarcangelo Festival, desideriamo restituire uno sguardo -ancorché parziale- su alcune delle proposizioni in cui ci siamo imbattuti durante il primo fine settimana di programmazione.
Possibile fil rouge, che intendiamo seguire, il binomio emersione-sprofondamento.
Prima (doppia) evidenza: al di là dei singoli appuntamenti in calendario è palpabile, aggirandosi per le vie e le piazze della cittadina romagnola, un esplicito desiderio di incontro nello spazio pubblico, dopo molti mesi di restrizioni sanitarie.
Molti cittadini e turisti del tutto estranei al Festival («Io non vado a vedere gli spettacoli perché sono troppo difficili per me, non ho abbastanza cultura» ci spiega la cortese barista dell’hotel in cui risiediamo: tema in cui non ci addentriamo perché ci porterebbe fuori dal presente piccolo discorso, ma su cui sarebbe doveroso riflettere nuovamente e profondamente) e il popolo del Festival (in questa edizione “di meduse, cyborg e specie compagne” più altro che mai, anche nelle molte possibili varianti della comunità LGBTQ et ultra, espressione di una salvifica possibilità di accoglienza delle peculiarità e difformità di e in ciascuno e ciascuna).
Tutte e tutti ad abbracciarsi e baciarsi a profusione -il Covid, questo sconosciuto– tant’è la spinta ad emergere (termine che, vale forse ricordarlo, nell’etimologia contiene l’opposto del tuffarsi, dunque un gesto guizzante, muscolare, finanche istintivo) dalla forzata clausura.
Al di là del fortuito imbattersi, è in molte proposizioni del Festival che abbiamo ritrovato tale opposta e complementare tensione.
Emergere e sprofondare, si diceva.
La Compagnia spagnola El Conde de Torrefiel, tra i nomi più attesi di questa edizione, ha proposto un dispositivo meta-teatrale il cui punctum è costituito da una messa in discussione della ricezione e, più in generale, dello sguardo: «Con questo nuovo progetto, El Conde de Torrefiel trascende il processo di creazione artistica e il suo rapporto con la realtà compiendo un passo in avanti, anzi, un salto mortale, verso una possibilità ignota: dalla finzione all’ultrafinzione».
Una lunga comunicazione scritta su schermo seguita dall’apparire epifanico di un piccolo gregge di pecore “ammaestrate” (ma che nostalgia di altre -ben più misteriose e radicali- entità animali che il Festival e alcune Compagnie della regione hanno offerto al nostro sguardo, nel corso degli anni), di alberi che danzano e automobili che irrompono, in un continuo emergere e sprofondare in quella reale finzione (o ultrafinzione, appunto). Si tratta di una proposizione affatto lontana -vivaddio- da un’idea canonica di fatto artistico come dimostrazione di téchne, in cui la funzione autoriale si esplica, si potrebbe sintetizzare parafrasando Gilles Deleuze là dove parla di Carmelo Bene, «nel far scattare un processo di cui egli è il controllore, il meccanico o l’operatore».
Dalle Sovrapposizioni (titolo del libro di Bene e Deleuze del 1978) alle Sovrimpressioni (titolo del nuovo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini preso in prestito dalla raccolta poetica di Andrea Zanzotto del 2001) il passo è, in un certo senso, breve.
Analogamente, il dispositivo spettacolare problematizza la ricezione del reale, proponendo una millimetrica dialettica tra presentazione e rappresentazione.
Esplicito riferimento finzionale: Ginger e Fred di Federico Fellini (1986).
In un grande spazio vuoto, al centro, un lungo tavolo con specchio a metà, come un (doppio) camerino.
Alle due estremità del tavolo siedono i due protagonisti, accanto a loro due assistenti / serve di scena che, lentamente, li truccano / invecchiano.
Flusso di pensieri, monologo interiore, come il duo ci ha abituato nel corso degli anni.
Vecchiaia in arrivo, nostalgia della gioventù.
Ironia e malinconia.
Deflorian e Tagliarini scivolano in Ginger e Fred, nelle battute del film a cui arrivano e che presto abbandonando, in sapiente equilibrio.
«Tutto finto e tutto vero».
Passano i minuti, davanti ai nostri occhi di colpo diventano vecchi, grazie al make up.
Tutto in evidenza, eppure.
Coup de théâtre, quando ce ne accorgiamo: quanta arte e quanta bellezza nel loro saper rinnovare, in noi guardanti, lo stupore.
«Ti parlo ma la persona che vedo non sei tu, sono io allo specchio».
Dal cellulare di lui arriva Stayin’ alive.
Danzette. Ironia. Malinconia. Il fiatone di Ginger e Fred quando alla fine del film, finalmente, ballano.
Lo specchio al centro del tavolo viene sfilato. Si guardano in silenzio. Come non pensare all’incontro tra Marina Abramović a Ulay al MoMA di New York nel 2010.
Il finale non pacificato, dolente e bellissimo: lei non indossa il grande abito da sera che le viene offerto, non vi è la liberatoria danza a due. Ciascun per sé, ai lati opposti della stanza, lui duetta con le fronde di una pianta in vaso, lei beve un superalcolico, obliqua, su un divano.
Sprofondamento ed emersione anche in How to be together, esperimento di coabitazione nello spazio pubblico per liberare possibili contenuti, artistici e più largamente umani, problematizzando tramite l’esperienza alcuni grandi temi: le forme della fruizione del bene comune, la sicurezza, la libertà, la nozione di eredità, la negoziazione e, più ampiamente, l’uso e le funzioni del linguaggio.
Un tentativo di trasformazione (dei singoli, del gruppo e del luogo) che durante il primo fine settimana di Festival ci è stato raccontato e non mostrato, con un pudore e una grazia che abbiamo trovato commoventi, in quest’epoca di spettacolarizzazione forsennata di tutto e tutti.
Una più piena immersione sarebbe stata invece auspicabile nella fruizione di Klub Taiga – Dear Darkness del collettivo di arti performative e visive Industria Indipendente.
«Klub Taiga è un club che appare e scompare nei luoghi in cui è ospitato. È un luogo nascosto e scuro, all’interno del quale vive e cresce un organismo pluripensante e agente, un unico corpo fatto di più corpi» affermano gli artisti.
«Qui non ci sono storie, neanche frammentate, neanche polverizzate nei piccoli gesti, però il lavoro di Industria Indipendente non punta neanche a un approccio facilmente emotivo. In un certo senso non si pone proprio il problema della comunicazione, non è qui per comunicare, è qui per essere» ha scritto Andrea Pocosgnich sulle pagine di Teatro e Critica.
Esattamente per questo motivo, per il suo collocarsi al di qua o al di là della comunicazione e invece (pro)porsi come occasione di esperienza, sarebbe stato forse opportuno potersi immergere in questa ammaliante installazione performativa, invece di fruirla frontalmente come fosse un normale spettacolo. Essere circondati da quelle abat jour verdi, dalla magnetica danza di Annamaria Ajmone, dalle luci a taglio, dal fumo, dai molti tappeti, dalle musiche avvolgenti, dai monologhi e dalle canzoni. Peccato.
Altro appuntamento grandemente atteso, nel primo fine settimana del Festival, MADRE del Teatro delle Albe, andato in scena nella straniante concomitanza con la finale dei Campionati Europei di calcio (a proposito dello sprofondare: tutto il Paese, o quasi, sospeso per l’ultima grande passione collettiva del nostro tempo – ah, se la cultura potesse esprimere anche solo una piccola parte di tale spinta aggregante!).
Il tema dello sprofondamento ha qui un riscontro referenziale: «Madre ci racconta di un figlio e una mamma contadina: lei è caduta dentro un pozzo» si legge nelle note di presentazione «Per disattenzione? Per follia? Per scelta? Non si tratta di un dialogo: è un dittico, composto da due monologhi, lui che la sgrida e va a cercare gli strumenti per tirarla fuori, lei che in fondo al pozzo confessa di non avere paura, di non sentirsi a disagio».
In scena Ermanna Montanari, Stefano Ricci e Daniele Roccato, testo di Marco Martinelli: artisti talmente noti e riconosciuti che pare pleonastico enumerarne le doti.
Il rapporto figlio-mamma contadina nelle «messe in vita» delle Albe non è certo nuovo: per molti anni è stato incarnato da Ermanna Montanari e Luigi Dadina, nelle scritture e visioni di Martinelli, in creazioni che hanno fondato la nostra esperienza e commozione di guardanti.
In questo allestimento ciò che maggiormente affiora, se così si può sintetizzare, è l’assenza. Non tanto di Dadina, ça va sans dire, né dell’azione scenica (non assente, piuttosto rappresa e trasdotta nel monumentale corpo-voce di Montanari), quanto di una gerarchia che comunemente regola la nostra esperienza di fruitori.
Non vi è primato del logos, in MADRE.
Centralità sì, ma non primato.
Si tratta di un dispositivo spettacolare in cui le immagini (live) di Ricci, le note di Roccato e le parole di Montanari sono paritetiche, si compenetrano e completano a vicenda.
Musica e disegni non funzionano -come troppo spesso è dato a vedere ed ascoltare- come mero abbellimento o decorazione del testo, piuttosto come elemento egualmente significante: magmatico, oscuro, evocante.
Si tratta di una scelta produttiva a suo modo coraggiosa, in un sistema di distribuzione dell’arte dal vivo che spesso si organizza per comparti rigidamente strutturati e separati.
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Per concludere (e rilanciare): alcuni lamentano il fatto che quello che era il Festival Internazionale di Teatro in Piazza abbia, nel corso del tempo, in gran parte rinunciato sia al teatro che alla piazza.
Per parte nostra possiamo affermare che il maggior merito di Santarcangelo è sempre stato quello di proporre artisti e formati altrimenti impossibili (o comunque difficilissimi) da incontrare in regolari Stagioni. Modi altri -a volte stupefacenti, a volte deludenti, spesso salvificamente spiazzanti- di intendere il fatto scenico.
Confidiamo che negli anni a venire Santarcangelo Festival continui a lasciarci frastornati e interdetti, mai pacificati.
MICHELE PASCARELLA
info: https://www.santarcangelofestival.com/