Ascolta
ogni cosa.
Ascolta i suoni, le voci, i gesti.
I gesti svegliano le cose.
Le cose respirano.
Un frammento del testo della poetessa e scrittrice Giusi Quarenghi per Angeli di terra di Scarlattine Teatro, presentato al Festival Il Giardino delle Esperidi 2021, pare appropriato per introdurre qualche pensiero su un’edizione che, per quanto ci è stato dato a vedere, ha problematizzato il rapporto tra realtà per quale si presenta e realtà aumentata, datità e spinta comunicativa, presentazione e rappresentazione.
Non parleremo, in queste poche righe, di tutte le proposizioni culturali e artistiche (spettacoli, dialoghi, concerti, camminate) che ci sono stati offerti (a partire da quanto O Thiasos TeatroNatura ha presentato al Festival è in fase di elaborazione un’ampia intervista a Sista Bramini, di prossima pubblicazione, e il loro spettacolo Athene Noctua sarà da noi recensito in altra sede).
Ci concentreremo, qui, su quanto ha messo in questione in maniera esplicita il rapporto artistico con il reale.
Quello che tocchi.
Quello che cade.
Quello che passa.
Ad uno ad uno i suoni, i respiri
Nel setaccio delle dita
Nel setaccio delle orecchie
È oro la terra. Ascolta.
Gioco dell’inizio
prove di mondo, terra incanto.
Terra. Angeli di terra è una sorta di installazione performativa per persone di ogni età che si realizza nella sonorizzazione di oggetti e materiali “di scarto”. Due figure mute, tra immaginari post-apocalittici à la Mutoid Waste Company e una divertente e divertita messa in suono di oggetti diversi (come non pensare alla mitica performance di John Cage a Lascia o raddoppia? del ’59), agiscono attorno a un’installazione in cui ogni vibrazione acustica è amplificata e resa sensibile da microfoni di diversi tipi.
Un’esperienza letteralmente estetica, dunque conoscitiva, è quella che ci è data a vedere, o meglio ascoltare. Echi e ritmi, riverberi e loop, rumori di macchine e di secchi pieni di terra, catene dentro a bottiglie e liquidi rovesciati: tutto è occasione di (ri)scoperta, di epifania del/nel quotidiano. «Happy new ears», direbbe Cage. Vien da ricordare le Macchine inutili di Bruno Munari o quelle celibi di Jean Tinguely: grandiose e al contempo povere architetture atte a celebrare il qui e ora, il già (s)fatto, l’esperienza ultra-mondana. Dalla terra appaiono figure (Munari docet, ancora): soli, fiori o farfalle che siano (o che ci siano sembrati) sono frutto e manifestazione di quel “teatro nella mente dello spettatore” che sempre più è il luogo dell’azione artistica di molti esponenti della scena contemporanea.
Quanto pesa la terra?
Come si disegna il tempo?
Riconosce la terra i piedi, le mani?
Due proposizioni che, in maniera differente, hanno optato per un “aumento” della realtà in cui lo spettatore si imbatte sono una promenade presentata dal Collettivo Wundertruppe a Olgiate Molgora e Vivarium, “percorso di realtà aumentata nella natura” realizzato nei boschi sopra a Campsirago Residenza.
In questi casi l’esperienza di incontro con il reale proposta allo spettatore è filtrata attraverso un esplicito correttivo atto ad arricchirla. Testi di stampo pensoso-filosofico ascoltati in cuffia e azioni performative nel primo caso, smartphone con testi e immagini che in luoghi stabiliti del percorso appaiono sullo schermo nel secondo, tali proposte sembrano porsi in sintonia con un’idea di arte che oscilla -per dirla in termini settecenteschi- tra l’imitazione della natura e l’imitazione della bella natura.
Com’è noto, nel diciottesimo secolo si è consolidata una concezione di bellezza come riproduzione del reale (il cui lascito è ciò che ancora oggi fa mediamente apprezzare maggiormente un film, ad esempio, se e in quanto “è tratto da una storia vera”) e manipolazione dello stesso in senso migliorativo, secondo i canoni correnti (alcuni pittori, per comporre ad esempio un ritratto ideale di figura femminile, copiavano il mento di una modella, la fronte di un’altra, le mani di una terza e così via).
Nei casi qui nominati sembra prevalere, a scopo divulgativo e di ampliamento del numericamente sempre più ridotto pubblico del teatro e dell’arte, una tensione a traslare una esperienza estetica (ancora: conoscitiva) secondo lingue e modi facilmente ricevibili dal destinatario.
Al di là degli esiti (confuso per la promenade, ben ideato e composto per Vivarium) vi è un’attenzione che pare non da poco, in un panorama spesso abitato da artisti per cui la questione del pubblico e di cosa esso esperisce è considerata un mero inciampo fra sé e la propria idea di arte.
Il pane non ha fame
l’acqua non ha sete.
Fami e seti popolano la terra.
Come sangue versato.
Linfa nuova. Ascolta.
Se lo tocchi non muori.
Giusi Quarenghi, come detto autrice dei versi qui riportati in corsivo, è stata anche ospite di un intenso incontro, in dialogo con la filosofa Laura Campanello. Condivisione di ciò che non si sa ancora, linguaggio che procede per silenzi, fare domande e rimanere nell’assenza della risposta, fare poesia come possibilità di cadere nelle cose senza timore, “come andar per arcobaleni”: una vibrante fiducia fenomenologica ha guidato un dire lieto e terrigno, arioso e verace. E una porta sospesa al centro della parete ad alcuni metri di altezza, nella sala in cui l’incontro si è svolto, è stata occasione per ipotesi e domande condivise sul mondo. Che a tratti, come nella poesia, si rivela.
Quanto pesa il suono. Ascolta.
Cosa pesa di più: i suoni cantati o i suoni muti?
Quelli ricordati o quelli dimenticati?
Da dove la vita che ancora ricomincia?
MICHELE PASCARELLA
info: https://www.ilgiardinodelleesperidifestival.it/, https://www.campsiragoresidenza.it/