Giorgio Diritti racconta “Volevo Nascondermi”

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Giorgio Diritti regista
Giorgio Diritti

Quando ti viene offerta la possibilità di intervistare un regista, fresco di David, c’è sempre un po’ di timore. Ma c’è anche l’emozione e la curiosità di scoprire come questo film, che si è aggiudicato i David al miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista, miglior autore della fotografia, miglior scenografia, miglior acconciatore e miglior suono, sia nato e diventato poi il grande e indiscusso capolavoro. Sto parlando ovviamente di Volevo Nascondermi, il film di Giorgio Diritti che vede Elio Germano vestire i panni di Antonio Ligabue. La storia di un uomo che trova nell’arte la propria dimensione di riscatto da una vita fatta di abbandoni e di rifiuti. La storia di un artista che, nonostante le difficoltà, resta attaccato alla vita fino alla fine. E questa storia Giorgio Diritti ha deciso di ricostruirla creando un ponte emotivo con lo spettatore che va al di là dei semplici fatti storici, per entrare in quella dimensione empatica dell’essere umano.

Come è nata l’idea del film e come si è approcciato alla storia di questo personaggio?

«L’idea è nata dal fatto che la figura di Ligabue mi ha incuriosito fin da quando ero un adolescente. Al di là di questo, ad un certo punto, andando sul territorio per presentare altri miei film, ho avuto l’occasione di incontrare persone che l’avevano conosciuto e che mi hanno parlato di lui. Insomma è stato un percorso un po’ alla volta. Fondamentalmente mi ha sempre incuriosito la sua storia, perché è la storia di un artista che tramite l’arte ha recuperato la sua identità di uomo. Poi ho scoperto che era anche un migrante, nato in Svizzera ma da genitori italiani che però l’avevano abbandonato subito. Un uomo rifiutato e segnato che ha sempre lottato per avere un riconoscimento, che fosse della sua persona e contemporaneamente della sua qualità artistica. In questo percorso mi è sembrato importante non fare un viaggio che fosse esclusivamente biografico, ma pensare di più a come lui all’interno viveva queste emozioni e sensazioni. Ho lavorato col desiderio di raccontare più questa dimensione emotiva piuttosto che seguire la cronologia o costruire una biografia tradizionale. Volevo che lo spettatore fosse partecipe del suo travaglio, della sua dimensione di fatica, sofferenza e gioia. Che si creasse un ponte più emotivo».

È per questa ragione che, in particolare nei primi minuti del film, si è optato per una narrazione non cronologica dei primi anni di vita dell’artista i cui episodi emergono un po’ come ricordi disordinati?

«Sì, questa cosa poi è legata anche al periodo in cui lui si trova in manicomio e i ricordi emergono come se fossero tracce che galleggiano dal passato, mentre lui si trova sospeso in quella dimensione di chiusura in manicomio».

Dal punto di vista linguistico, si è optato per il tedesco iniziale e poi per il dialetto emiliano. È semplice aderenza al reale o c’è di più?

«È anche perché rende evidente in modo più chiaro allo spettatore quanto lui fosse un po’ sempre fuori posto. Parlare tedesco e trovarsi in mezzo alla pianura padana non è facile. Poi ci sono anche dei rimandi alla quotidianità, invitando a riflettere sulla condizione dei forestieri che arrivano in Italia, dei migranti, degli italiani che sono andati all’estero. Di tutte quelle situazioni, insomma, in cui ci si sente fuori posto. La lingua è il primo aspetto per cui si viene inscatolati nella condizione di non essere al posto giusto. Era importante questa scelta per dare forte questa sensazione. Poi io in tutti i miei film cerco di mantenere l’idioma linguistico in relazione a quanto la storia racconta perché mi sembra sempre molto utile».

Nonostante questo, Volevo Nascondermi è un film che si affida molto alla potenza delle immagini e alla presenza scenica dell’attore. Come è stato lavorare con Elio Germano?

«È stato molto bello, il risultato dice tutto [NdR. ride]. Ci sono incontri che riescono ad essere proficui e questo lo capisci molto anche dal risultato ottenuto. Si è parlato, si è ragionato, si è capito soprattutto bene assieme chi era Ligabue, ma entrambi partendo da percorsi di ricerca anche autonomi. Anche Elio si è appropriato di quei materiali che esistevano sull’artista, i documentari e le storie di persone sul territorio che lo avevano incontrato. Quindi questo ha favorito anche per lui la costruzione del personaggio».

Giorgio Diritti e Elio Germano sul set
Giorgio Diritti e Elio Germano sul set

Sempre a proposito della potenza delle immagini, tra i vari David, il film si è aggiudicato anche il premio al miglior autore della fotografia. Come ha lavorato insieme al direttore della fotografia per la resa dei colori e delle luci?

«Quello con Matteo Cocco è stato un incontro molto positivo. Lui ha trasformato un po’ i miei ragionamenti sull’intenzione del film in una dimensione di luce. Si è ragionato su questa mia idea di rendere molto forte la dimensione dello spazio in cui si trovava Ligabue come punto di vista di quello che lui vedeva, che sicuramente ispirava anche molto la sua dimensione artistica, e contemporaneamente di giocare sul colore. Non però in un modo stereotipato, ricalcando i colori dei quadri di Ligabue che sono molto vivi e accesi. La scelta insomma è stata di camminare in un percorso di presenza di colore e di luce, pur rispettando lo specchio della dimensione nella quale lui si è dovuto calare nelle varie situazioni della vita».

A proposito del punto di vista, c’è nel film una tendenza della macchina da presa a stare molto vicina alle cose e ai personaggi, un po’ come l’artista stesso, e poi in altri momenti allontanarsi fino a quasi confonderlo con la natura…

«È una scelta che racconta la dimensione di quel che lui viveva, o meglio in cui era immerso, e di quello che lui era come personalità. Le due cose sono in parallelo. Nel ragionare insieme a Matteo ad un certo punto è venuto fuori il parallelo con il cinema western, dove hai quella dimensione in cui sei molto sul personaggio ma hai anche una grande dimensione di spazi e di aperture. La cosa importante era che venissero fuori i due elementi fondamentali: il luogo in cui si cala Ligabue e come lui si relaziona a questo luogo, com’è e cosa vive. In questo c’era un potenziale che è venuto fuori molto bene da tutto il lavoro sull’immagine e sulla fotografia».

Nel film si fa riferimento anche a un documentario su Ligabue precedente alla sua mostra a Roma. È un fatto reale, ma c’è forse anche l’intento di suggerire il cinema come spazio di scoperta e riscoperta degli artisti?

«Un po’ lo è naturalmente, sono dimensioni di arte che si incrocia con altra arte. Una cosa porta all’altra in maniera naturale. Una volta si diceva che il cinema era la settima arte e per molto tempo questa cosa ha fatto parte della dimensione della coscienza comune del mondo. Adesso lo sviluppo dell’aspetto televisivo sta trasformando molto il cinema anche in consumo e quindi intrattenimento. L’aspetto artistico rischia un po’ di essere marginalizzato. Questo però è un problema della società e non della realtà delle cose».

A proposito del titolo, Volevo Nascondermi, come è nata questa scelta?

«È nata da una sensazione che avevo nello scrivere. La cosa che manca nel titolo sono i tre puntini, nel senso che il titolo in fondo interroga. È la storia di un uomo che voleva nascondersi perché era brutto, orfano, solo, abbandonato e rifiutato da tutti. Ma, ad un certo punto, ha comunque reagito. È come, in un certo senso, se il titolo fosse la premessa a quel che dopo succederà nel film. Volevo Nascondermi, ma… Un po’ questa era l’idea. Avevo anche ragionato su altre ipotesi, però alla fine questa è rimasta la migliore».

Giorgio Diritti e Elio Germano sul set
Giorgio Diritti e Elio Germano sul set

Un film che è un continuo interrogare il suo spettatore, dal titolo fino alla fine, ponendolo davanti a una vita fatta di stenti ma anche di grandi gioie. Ancora una volta, il termine più azzeccato che mi viene in mente è quello di empatia: un ponte che si crea tra Ligabue e gli uomini e le donne che l’hanno scoperto, dandogli una casa ma soprattutto offrendogli quell’affetto e quel riconoscimento che per tanti anni gli era stato negato. E questa empatia passa dalla storia e dai suoi personaggi allo spettatore, che grazie alla potenza delle immagini e alle scelte linguistiche, si trova totalmente calato nel modo di vivere e di percepire del suo protagonista, giungendo alla comprensione più profonda di un uomo e di un artista.

Volevo Nascondermi è una vera e propria esperienza cinematografica ed artistica e, come tale, merita di essere vissuta sul grande schermo. E sono molte infatti le sale cinematografiche che in questi giorni sono tornate ad ospitarlo nella loro programmazione.