È il pomeriggio del primo marzo. Dopo aver saldato al tassista una notevole cifra, anchilosato e desideroso di stirarmi la schiena, scendo dal veicolo giallo dopo 10 ore di viaggio e 900 km percorsi. Praticamente i 4/5 dell’intera lunghezza dell’Isola. Era dai tempi dell’India che non ero costretto a tale modalità di trasporto. Per carità, comoda e pratica, ma non certo adatta al mio stile di viaggiare. Troppo esclusiva. Ho sempre preferito i più scomodi e lenti “Camions” o le più moderne “Guaguas” (autobus). Sono all’aeroporto internazionale Josè Martì de La Habana. Il mio viaggio di rientro è iniziato con questo trasferimento. Per completarlo mi mancano 6 ore di attesa in aeroporto, quasi 10 di viaggio fino a Madrid, un’attesa di un paio d’ore prima del volo Madrid-Bologna, poi trenino e treno per Faenza. Viaggio che in tutto impiegherà circa 33/34 ore. Ognuno di noi sa che di necessità è bene fare virtù, quindi le restrittive normative in fatto di trasporto e spostamento (in vigore da più di un mese causa la recrudescenza della pandemia), che proibiscono di fatto l’allontanamento dal comune in cui ci si trova, permettendo solo ai turisti di muoversi liberamente – ma nei moderni e carissimi taxi di proprietà statale – mi semplificano notevolmente la prima trasferta. Quella da Guardalavaca a Habana.
Guardalavaca
A Guardalavaca ho passato gli ultimi 34 giorni in un comodo hotel 3 stelle con modalità tutto incluso, ovvero mangia, bevi, dormi quanto vuoi tanto paghi uguale. Ebbene sì, in un hotel. Conoscevo già il Club Amigo Atlantico Guardalavaca, un datato hotel stile sovietico adagiato a pochi passi da una meravigliosa spiaggia bianca bagnata dall’oceano Atlantico, per l’appunto. Unico hotel nel raggio di 300 km miracolosamente scampato alle chiusure che hanno seguito la comparsa della seconda ondata del Coronavirus a Cuba. Un hotel discreto nel rapporto qualità/prezzo ora che il cambio divisa straniera-pesos cubano è schizzato alle stelle. Pulito, cucina discreta, piscine, ma quello che più piacevolmente stupisce sono i giardini tropicali fioriti, estremamente curati e ben tenuti da schiere di giardinieri, di un verde lussureggiante, che fanno a gara con l’accecante riflettersi del sole sulla spiaggia e nel mare verde-azzurro-turchese. Motivo per cui rimane più a lungo impresso nella retina dell’occhio e nelle memorie degli ospiti. Giardini su cui si affacciano i corridoi lunghi e ampi, simili a terrazze, cui è dotato l’hotel e sui quali si aprono le stanze. La mia è la 2060, secondo piano, d’angolo. Spettacolare la vista sia sull’oceano, a non più di 20 metri, sia sui giardini, offerta dalle due pareti di vetro della stanza e dal balcone. Il suono secco della risacca e delle onde perpetuamente presente. C’è una parete di vetro anche in bagno, per cui uscendo dalla doccia – o direttamente dalla doccia stessa – puoi godere dei panorami. Queste viste hanno rallegrato la mia permanenza, convincendomi a prolungarla più di quanto pianificato. La spiaggia fine e bianchissima è una delle tante presenti in zona tra cui playa blanca, playa esmeralda, playa Colon… Nonostante il comprensorio sia fra i richiami più turistici dell’Oriente di Cuba, soprattutto per chi cerca una vacanza di relax al mare, di turisti, sia nazionali che stranieri, non se ne vede neanche l’ombra. Si ripete l’antifona: i luoghi che per trent’anni sono stati dedicati ai vacanzieri di tutto il mondo oggi di vacanzieri ne vedono ben pochi. E se da un lato questo fa presupporre a tutte le problematiche legate a luoghi le cui economie dipendono quasi in tutto ed esclusivamente dal turismo, dall’altro mi permettono di vedere questi posti nella loro originale bellezza e solitudine cui il turismo di massa aveva strappato. Spiagge praticamente deserte, impensabile vederle tali fino all’anno scorso. Mi volto a destra e a sinistra e vedo solo spiaggia e battigia. Guardo il mare: è vuoto, nessuno nuota. Torno a guardare a destra e sinistra: non mi sono sbagliato. Un giorno cammino per mezz’ora fino alla fine della spiaggia: avrò visto 4 cubani che facevano la guardia a strutture turistiche desolatamente chiuse. Un hotel 4 stelle, un centro di immersione, vari ristorantini… Quattro persone in 34 giorni – quasi tutti di bel tempo, fresco, asciutto e ventilato (com’è d’uopo nella costa nord di Cuba), fatta eccezione per 4 o 5 giorni di burrasca, che date l’altezza e la potenza delle onde rivelano l’Atlantico come oceano e non mare. Mi sono letto alcune migliaia di pagine di svariati romanzi e opere varie. Niente mi predispone meglio alla lettura di una sdraio in riva al mare, l’odore e lo scialacquio delle onde e il sole che tosta la pelle portando beneficio alle ossa sollevando l’umore.
Santiago de Cuba
Ho lasciato La Habana una mattina prima dell’alba, dopo quasi due mesi. O meglio, a quell’ora era programmato il decollo dell’aereo che mi avrebbe dovuto trasferire a Santiago de Cuba. Il volo, previsto per le 5 e mezza, è partito con 5 ore di ritardo… E per fortuna è partito! Si era prospettato l’annullamento del volo per non ben definite problematiche legate al Coronavirus. Chiaro, ora qualsiasi problematica è ben ricondotta alla pandemia, oltre che all’onnipresente embargo criminale Yenqi.
Santiago è come la mia seconda casa – o forse la prima? –, il vero motivo del mio viaggio. Qui ho e ho avuto amicizie, relazioni, avventure di tutti i tipi. Voglio continuare a coltivare ciò come negli ultimi lustri e vedere se la pandemia e le problematiche associate hanno effettivamente colpito duro, come ho già avuto modo di cogliere a Habana, tanto da richiedere un ridimensionamento o addirittura un cambiamento radicale del mio stile di vita basato quasi esclusivamente sui mesi di soggiorno nell’Isola.
Il primo impatto non è come per la Capitale. Santiago la conosco bene e subito mi accorgo di ciò che manca… Questo posto è chiuso, quell’altro pure. Le strade son mezze vuote, mancano i carretti dei rivenditori di generi alimentari e non. Gli scaffali delle vetrine dei pochi posti apparentemente aperti – ma ora chiusi data l’ora – sono o vuoti o riempiti esclusivamente di pannolini per bambini. Telefono ad un amico italiano che vive a Cuba ormai da più di 10 anni e ci mettiamo d’accordo per vederci in un bar-ristorante… Allora qualcosa di aperto esiste! Il bar, sempre strapieno di turisti e cubani, è desolatamente occupato da un solo tavolino con 4 persone tra cui il mio amico. Sugli scaffali di legno e specchi campeggia solo una varietà di ron. L’Habana Club, 7 anni. Nessun altro distillato, liquore o bibita che sia. Se a l’Habana avevo potuto verificare l’aumento spropositato dei prezzi dovuti al riordinamento monetario e salariale in vigore dal 1 gennaio 2021, qui a Santiago, seconda città di Cuba, mi devo pur anche render conto della scarsità di beni. Di tutti i beni. Di tutto. La conferma mi viene data il giorno successivo quando percorro la città nella sua zona più facile, il centro. La desolazione di negozi e attività chiuse salta all’occhio così come le file, ancora più lunghe che a La Habana e drammaticamente concentrate in poche zone. A Santiago ci sono solo pochi negozi che continuano a funzionare sebbene ciò che offrono è poco e a prezzi occidentali, non solo nell’importo ma anche nella forma di pagamento, in quanto vengono accettate solo carte di pagamento in valuta estera. Prima fra tutte l’usd, così come l’euro, la lira sterlina e il dollaro canadese. Sapevo che sarebbe stata dura, ma la prospettiva è di non riuscire a metter piede in un negozio data la quantità di ore d’attesa in fila necessarie per entrare. Mi informo: alcuni ristoranti, per quanto rincarati, continuano la loro offerta, per cui il pasto della sera è già risolto. Per quello del mezzogiorno in un modo o nell’altro farò; alcune caffetterie con prezzi triplicati rispetto all’anno scorso offrono quel che hanno: panini, uova, a volte yogurt e formaggio.
Sapevo che mi sarei dovuto adattare ancora più del solito. Questa desolazione è il risultato della presenza del virus, che ha lasciato, dallo scoppio della crisi a marzo fino a metà novembre de 2020 le scansie dei negozi vuote. In tutta Santiago solo 3 bar aperti, nessun locale notturno dove si poteva ballare salsa e reggueton, quando invece prima si ballava tutti i giorni, nessun luogo dove ascoltare un poco di Trova, il genere musicale tradizionale cubano. Ho programmato di rimanere a Cuba 40 giorni. E per un così breve lasso di tempo ho creduto che avrei avuto la pazienza di resistere all’assenza dell’amata Cuba festaiola. D’altronde, le cose fondamentali come il sole, la spiaggia, i libri, come anche la compagnia, per quanto ridotta, è la stessa di sempre: si chiacchiera, si specula, si spettegola come d’uso, anche se il leitmotiv, il discorso prevalente, è sempre l’impennata dei prezzi, l’assoluta scarsità dei beni e lo stravolgimento che ne sarebbe derivato alle nostre vite di frequentatori invernali di questo angolino di mondo… Nessuno o quasi si preoccupa della nuova malattia o dei pericoli a cui può andare.
Per 4 o 5 giorni è filato tutto liscio. Poi, in un unico giorno, è successo di tutto.
Lockdown a Santiago
L’improvvisa impennata di casi di positività al virus nella provincia di Santiago, ma ancor più nella confinante Guantanamo – nello specifico trattasi di 60/70 casi giornalieri in tutta la provincia che conta 7/800.000 abitanti, forse più – costringe il governo centrale ad intervenire, modello Dpcm italiano, senza tante scartoffie. Ciò che dice la TV di stato nell’unico telegiornale disponibile ha l’effetto di una legge severa e dispotica, a cui non si può transigere.: trasporti sospesi, spostamenti tra comuni, province e nazioni bloaccati, spiaggie, piscine chiuse, bar aperti solo per asporto, coprifuoco dalle 19 alle 6 della mattina. All’annunciare di queste misure, io, da non più di due settimane a Cuba, e che ero comodamente seduto sul divano, comincio ad avvertire una specie di vertigine. Non voglio credere alle mie orecchie: sono scappato da un confinamento per ritrovarmi in un altro, solo che a 10000 km da casa. Un leggero senso claustrofobico mi prende allo stomaco. Non hanno parlato di chiusura degli aeroporti e sospensione dei collegamenti intercontinentali, ma hanno sospeso molti collegamenti con il continente. Panama, Nicaragua, Guyana non saranno più raggiungibili se non con voli umanitari per il rimpatrio dei cittadini residenti in quei paesi; la frequenza, prima giornaliera, con gli States si riduce una a settimana. Ulteriori misure saranno comunicate per tempo nei canali ufficiali, quasi sempre Twitter o Facebook. Stento a crederlo: mi trovo nella stessa condizione dell’anno scorso in Italia, quasi. Impossibilitato a spostarmi da Santiago se per mezzo dei carissimi taxi, senza spiagge o piscina, senza ristorante la sera, anzi chiuso in casa dalle 19. Però mantengo la calma e non mi dispero. Con gli amici si parla di misure transitorie come da noi, di un paio di settimane. I casi caleranno e con loro le misure relazionate. Sbagliato. Le misure si sono indurite ancor di più e sono tutt’oggi ancora presenti. Ma comunque le lomitazioni partiranno da lunedì ed oggi è giovedì sera. Quindi l’indomani, di buon mattino, parto per la spiaggia, convinto a gustarmi fino all’ultimo queste poche giornate. Non trovo un mezzo di trasporto neanche dopo mezz’ora di attesa e quindi decido di ripiegare su una piscina, la sola aperta tutti i giorni.
Sono il primo ad arrivare. La piscina apriva alle 10 ed io ero lì già dalle 9. Mi cambio, sistemo il lettino al sole, apro il libro elettronico e sento il cellulare squillare. Indispettito – ho un rapporto difficile col telefono – guardo nel display chi mi cerca: è la padrona di casa. I medici, deputati al mio “controllo epidemiologico” e alla mia “salvaguardia”, a 3 giorni dal mio arrivo si sono accorti che esisto – del resto li avevo avvisati io, poco dopo il mio arrivo in città – e hanno chiamato la padrona di casa. Sono indispettito per due motivi. Primo, per la padrona di casa, a cui ho ripetuto 100 volte che la quarantena l’ho trascorsa a Habana (falso) e non ho certo intenzione di ripeterla qua. Secondo, con la situazione che si sta cominciando a ingarbugliare. Chiaramente, non posso che ubbidire e seguire le raccomandazioni che mi chiedono di tornare immediatamente a casa. Riesco incredibilmente nell’intento di farmi rimborsare il biglietto dal direttore della piscina– che pare prenda a cuore la mia situazione dicendomi che assolutamente devo seguire ciò che mi dice, in primis, il medico della casa, secondo la padrona. Poco dopo sono a casa ad aspetatre il medico che ha annunciato la sua visita, ma senza specificare l’ora. Niente di più classico. E se anche l’avesse specificata non sarebbe stata attendibile, I cubani non sanno cosa sia la puntualità. Qualcuno infine arriva. La sua voce mi giunge da una rampa di scale più in giù e mi dice che sarebbe tornato “a horita”, di non uscire che mi avrebbero dovuto fare un altro tampone e che comunque sarei dovuto restare in isolamento fino all’ottenimento del risultato. Decido che farò valere le mie giustificazioni in seguito, prima di fare l’esame e con chi si sarebbe presentato. Passano almeno 5/6 ore, ancora nessuno. Intanto si fanno quasi le sei di sera e deciso a non rispettare la quarantena – che comunque sono convinto non devo fare in quanto turista e non cubano residente all’estero. In effetti, il sito dell’ambasciata italiana a Cuba, che avevo consultato prima di partire parlava chiaro. O forse forniva informazioni completamente errate, almeno così sostiene la parte cubana. Comunque alle sei, in buona fede (e seccato dall’aver trascorso una giornata in casa e non in piscina, incolpando innanzitutto me stesso, perché non avrei dovuto dar retta a Yamila, così si chiama la padrona di casa) esco per una passeggiata alla ricerca – magari trovarla! – di una birra e per comprare un codice per l’accesso ad Internet. Ovviamente, appena uscito, a casa si presentano medico e infermiere per sottopormi al test molecolare che certifichi la mia negatività a COVID. Yamila mi chiama immediatamente al cellulare, torno a casa di corsa, impiegando non più di 5 minuti, ma quando arrivo i medici non ci son più. Aspetto ancora, magari decidono di tornare. Alle 20, ora di cena, ignorando il monito della padrona, esco per mangiare. Se da lunedì non sarà più possibile, non voglio certo perdermi l’ultima serata, ho una gran voglia di unirmi ai miei ami ci con un paio di birre!
Il giorno dopo cerchiamo telefonicamente il medico di famiglia che dovrebbe dirci cosa fare: non ne sa niente, ovviamente, ma mi sconsiglia di uscire, perché, è ufficiale, devo sottopormi a questo benedetto PCR. Intanto Yamila al telefono con il dottore dice a voce alta: “È stato denunciato? E per che cosa sarebbe stato denunciato? Propagazione di epidemia?”. Mi cade il cellulare dalla mano. Nella stanza cala un silenzioso gelo,a che se fuori ci sono 25°C. Yamila continua: “Se voi denunciate lui, lui denuncia voi!”. Termina la telefonata, non il gelo.
Il nuovo ordinamento monetario e salariale a Cuba
Agli inizi degli anni ’90, per affrontare la crisi dovuta al crollo del Blocco comunista, il governo Cubano, cioè Fidel Castro, dovette – suo malgrado – apportare diverse riforme economiche, tra cui l’apertura al turismo e al commercio con i paesi capitalisti per rifornirsi sul libero mercato di tutti quei prodotti (tutto) che prima gli venivano gentilmente forniti pressoché gratuitamente dall’URSS in cambio di poco zucchero e per il merito di essere avamposto comunista a meno di 80 miglia marine da Miami. Da allora cibo, petrolio, pezzi di ricambio, materiale da costruzione, tutto doveva essere importato e pagato con la moneta di scambio internazionale l’US dollar. Ebbene sì, Cuba ha salvato il sistema comunista e lo porta tutt’ora avanti, anche se riformato, con la valuta dei Stati Uiniti, il suo più acerrimo antagonista degli ultimi 40 anni. Per più di un lustro il dollaro americano – essenzialmente proveniente dal turismo e in minima parte portato fisicamente sull’isola dagli esuli a cui si diede la possibilità di tornare a far visita alla propria famiglia – venne utilizzato in modo del tutto legale all’interno del paese. Furono create catene commerciali, inizialmente solo negli hotel, preclusi ai cubani (badate bene!), poi man mano in ogni angolo dell’isola, dove ci si poteva rifornire dei beni di non primissima necessità, ma comunque indispensabili per una vita dignitosa. Abbigliamento, scarpe, prodotti per l’igiene e alcune altre cose definite consumistiche: lavatrici, fornelli, ventilatori. Queste erano accessibili solo a chi disponeva della valuta nordamericana. Dagli anni ’90 fino al 2002, circa, si utilizzava dunque il dollaro insieme al peso, la comunemente detta “moneda nacionl”, moneta nazionale. In quell’anno il governo proclama solennemente e decanta la raggiunta sovranità monetaria, raccogliendo tutti i dollari, a cominciare dalle monete, e le sostituisce con il CUC, acronimo di cuban unit convertible (non si capisce bene perché in inglese…) e stabilisce con questa un tasso di cambio fisso sul dollaro statunitense di 1:1. Non contenti, aggiungono un del 10% sul cambio usd/cuc e su tutte le operazioni che prevedo l’utilizzo della divisa Nordamericana, rimesse dei 2 milioni di cubani residenti negli USA, e operazioni con carte di credito di chiunque si trovi a Cuba, turista o meno. Tutto questo fino al primo gennaio 2021, giorno dell’unità monetaria. Erano già diversi anni che si parlava ufficialmente di abolire il Cuc e di utilizzare unicamente il pesos cubano. Questo per ridurre anche le differenze venutesi a creare nella popolazione tra chi aveva accesso al Cuc e chi non l’aveva. Diversi lavori, anche statali, venivano pagati in cuc, oltre alle attività legate al turismo. Dal primo dell’anno e per i 6 mesi successivi, Cuba si propone di raccogliere tutta la massa monetaria denominata in cuc e sostituirla con i pesos. Questo nell’arco di una riforma più ampia che di fatto quadruplica in media gli stipendi e pretende di eliminare la massa incredibile di aiuti e sovvenzioni statali, quali prezzi degli alimenti e di quel poco che si continuava a trovare disponibili nelle botegas, negozi dove da sempre si acquistava in pesos. L’aumento degli stipendi, unito alla cronica scarsità di offerta di beni e prodotti in genere, ha fatto sì che ad accaparrarsi i beni presenti nei negozi in cuc – letteralmente svuotati al cominciare della pandemia – fossero prima i cubani benestanti, poi chi si occupava di comprare e rivendere, con un margine non certo indifferente di guadagno. Infine è stata la volta del governo che, consapevole che per un determinato periodo di tempo avrebbe sofferto la mancanza di utili in moneta forte derivati dal turismo, ha deciso di intervenire in una qualche maniera. E così di fatto ha racimolato tutto il racimolabile che era presente sull’isola.
Bisogna sapere che il commercio al minuto del 90% dei prodotti è di proprietà esclusiva dello Stato che lo ha esposto in determinati negozi vendendoli in MLC (moneda libremente convertible), dollari, euro o qualunque altra valuta e unicamente tramite carte di debito o credito. Chiaramente tutto questo ha portato a un aumento vertiginoso dei beni disponibili sul mercato, ma praticamente tutto in nero; intanto i prodotti più scarsi hanno decuplicato il loro prezzo. Per esempio una semplice bottiglia di shampoo è arrivata a costare 20 dollari, in un paese dove i lavori più umili e la maggior parte delle pensioni erano ancora pagati circa 10 dollari. Al mese. Immaginate.
Fine seconda parte. Seguirà una terza e ultima parte.