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Conversazione con il regista, il drammaturgo e gli attori dello storico ensemble faentino in occasione di un anniversario significante. Guardando al futuro.
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2011-2021, dieci anni di progetti con i migranti. A favore di chi non conosce la vostra storia potete raccontare come questa direzione di lavoro si innesta nel vostro percorso precedente?
Alberto Grilli Da sempre ci siamo occupati, sia con gli spettacoli, sia con le scelte di politica culturale (il teatro di strada per esempio) che con i progetti nel sociale di dare un senso al nostro agire: aggiungere alla ricerca artistica anche la ricerca di un ruolo nella comunità in cui viviamo o in quelle che incontriamo viaggiando. Così, negli anni, è nato il nostro lavoro con i non-attori, uno stare nel mondo cogliendo le emergenze e restituendo con il nostro artigianato interventi che se non sono risolutori sono almeno riparatori (di cuori, sentimenti, paure, debolezze). Fra le tante emergenze affrontate, le operaie dell’Omsa nel 2010 (trecentocinquanta licenziate da una azienda in salute) e nel 2011 l’arrivo del mondo nuovo – profughi, rifugiati, richiedenti asilo.
Dal punto di vista della regia quali difficoltà e quali soprese comporta il lavoro con non-attori migranti, rispetto alla pratica quotidiana con professionisti le cui competenze sono affinate da anni di training rigoroso?
Alberto Grilli Per molti anni ho lavorato con attori (i miei compagni del Teatro Due Mondi e altri) e allievi, aspiranti attori. Con loro mi sono occupato soprattutto di lavoro sul personaggio, di creazione di partiture fisiche e vocali. Poi, circa dieci anni fa, tutte le esperienze e le pratiche prima confuse, istintive e nascoste hanno preso forma e si sono chiarite grazie all’incontro con Jacques Livchine e Hervée de Lafond del Théâtre de l’Unité. Li avevamo invitati a Faenza, conoscendo da lontano il loro lavoro e il loro impegno politico, a condurre un laboratorio rivolto a cittadini e alle operaie licenziate della fabbrica Omsa che stava per essere chiusa. Con loro ho capito che è possibile lavorare non direttamente sulla tecnica degli attori e fare ugualmente un bel teatro, che emoziona e che pone domande a chi lo vede. Con i non-attori non posso parlare di personaggi, perché non hanno gli strumenti tecnici per costruirli, per cui con loro lavoro sull’oggettività di azioni concrete: sarà il pubblico, successivamente, a leggerne un significato. Con i non-attori lavoro sulla loro condizione esistenziale, su cose che li riguardano direttamente, con i miei attori invece c’è qualcosa di più, a loro cerco di raccontare anche la visione del mondo del nostro gruppo. Nel mio lavoro, l’affinità che esiste con gli attori e con i non-attori è data dal fatto che, come regista, mi rapporto sempre a un gruppo, senza protagonisti, e propongo le stesse regole che facilitano il lavorare assieme: parlare poco, aprirsi agli altri. Lavorare coi non-attori ti fa uscire dal teatro, dal tuo teatro, e ti fa incontrare un’altra vita che, però, se sei capace di guardare bene, ti serve per alimentare il tuo personale percorso artistico.
Come è cambiata, se è cambiata, la scrittura drammaturgica, in conseguenza a questi incontri?
Gigi Bertoni Nelle azioni –e negli spettacoli– che prepariamo coi migranti, io cerco di intervenire poco, pochissimo. Sono loro che devono avere spazio le loro parole, le loro vite. Se ci sono esigenze particolari collaboro con Alberto nei modi soliti: un esempio, per La Tempesta ho proposto di utilizzare il monologo di Shylock (Shakespeare, Il Mercante di Venezia, atto III scena I – …non ha occhi un ebreo…) adattandolo per una delle persone in scena. Ma la scelta, come dire, strategica è quella di far usare le loro parole.
Quali attenzioni richiede, essere in scena con attori e attrici migranti?
Angela Pezzi Per stare in scena con i non attori devo, se mi è richiesto, diventare non-attrice, quindi appoggiare al muro della sala il mio bagaglio teatrale, mischiarmi agli altri e semplicemente Essere presente e Fare quello che mi viene chiesto, d’istinto, senza pensarci troppo, non giudicare, non giudicarmi, e anche copiare. È divertente e liberatorio.
Renato Valmori Intanto bisogna distinguere il lavoro che si fa a Faenza e quello che si fa in altre parti d’Italia o del mondo. A Faenza ci si vede (in tempi normali chiaramente, non in quest’ultimo anno di pandemia mondiale) per almeno una trentina di volte nel corso di una stagione che va più o meno da ottobre a giugno dell’anno successivo, più o meno settimanalmente, per due ore. L’appuntamento diventa più un luogo di ritrovo tra amici che un laboratorio di teatro in senso stretto. C’è il tempo per creare un rapporto di fiducia, di stima, di amicizia, anche di affetto, con i migranti. E questo permette un respiro del lavoro che nei laboratori di due-tre giorni, massimo una settimana che facciamo in giro per il mondo non si può realizzare, perché bisogna andare più rapidamente al sodo, anche perché quando siamo fuori Faenza il lavoro si deve concludere nella maggior parte dei casi con un’azione pubblica. Iin questa modalità quasi solo noi attori del TDM (e Alberto chiaramente) sappiamo quello che sta succedendo, perché lo stiamo facendo e dove si deve arrivare.
Quali difficoltà presenta, questo incontro di mondi?
Renato Valmori Quando si presentano problemi relazionali coi migranti li si risolve coi responsabili del luogo e attraverso il dialogo diretto con i leader dei migranti stessi: ci sono sempre, soprattutto in presenza di gruppi di etnie diverse. Alberto ha grandi capacità nella gestione delle situazioni conflittuali, non ricordo che ci siano mai stati problemi che non si siano poi risolti. In generale bisogna avere la consapevolezza che per i migranti africani quello che si sta facendo non si chiama teatro! La parola teatro non esiste quasi, nella varie lingue africane. Per loro siamo persone che vogliono essere amiche facendo cose strane: un gioco. Infatti spesso ridono o si guardano attorno allegramente durante il lavoro, anche in azioni in cui per noi italiani il contenuto è chiaramente drammatico. Con iraniani, pakistani, cingalesi e asiatici in generale il rapporto è più facile sia per la loro naturale mitezza e spesso anche perché c’è più consapevolezza, nella gran parte di loro, che quello che si sta facendo è una forma d’arte, perché teatro e danza sono più presenti -magari mischiati tra loro- nella cultura asiatica. Ma l’attenzione e sensibilità che si deve loro è la stessa che usiamo con gli africani.
Potete individuare una cosa che avete scoperto nel vostro lavoro d’attore, mediante questa pratica decennale?
Angela Pezzi Nel laboratorio facciamo un esercizio che si chiama Lo specchio: due persone sedute a terra una davanti all’altra, si guardano negli occhi mentre fanno gli stessi gesti. Mi è successo di “entrare” negli occhi dell’altro, tanto profondamente che quando l’esercizio è finito avevo la sensazione di conoscerlo.
Tanja Horstmann Quando si dice che il teatro è vita penso ad alcuni non-attori che ho visto vivere in scena nelle nostre Azioni. Loro non recitano, semplicemente sono mentre eseguono col loro corpo o la loro voce un’indicazione di regia. Il passo al rallentatore di Noël con la valigia in mano, “J’accuse” di Afam che racconta il suo viaggio attraverso il deserto, lo sguardo ipnotico di Imran nell’esercizio dello specchio, la danza di Zabi, il pane duro spezzato da Omid, la scopa con cui Badsha si difende dal gruppo che vuole travolgerlo, la mano di Ali Can che si posa sulla spalla di Ezechiel. Eseguono, ma probabilmente vivono: l’intensità e la credibilità assoluta delle loro azioni lo fa pensare. Vedere loro fa capire che è inutile voler riprodurre certe verità che non si sono vissute, che servono altri stratagemmi per raccontare la vita.
Renato Valmori L’importanza della semplicità e verità del gesto. Fare i movimenti e le azioni per quello che sono, senza sottotesti o simbolismi. Saltare per fare un salto, indicare con un dito per indicare con un dito! Sembra banale, ma un attore usa di solito più linguaggi diversi contemporaneamente, per dire altro oltre a quello che dice o fa. Quasi tutte le azioni sono reiterate, coreografate, fatte da più persone contemporaneamente. Più il gesto è semplice e più è semplice riprodurlo per gli altri partecipanti, più prende forza nel significato che giunge allo spettatore, anche se il non-attore occasionale spesso non ne è consapevole. Bisognerebbe fare poi un discorso a parte per i non-attori “professionisti”, cioè quelli che sono anni (chi undici, chi quattro o cinque) che lavorano con noi al progetto Senza Confini di Faenza. Anche se non hanno le basi e il lavoro costante e quotidiano di noi attori, hanno la nostra stessa consapevolezza. È il denominatore che abbiamo in comune e che rende il progetto faentino unico e diverso dai laboratori che facciamo fuori.
E una che avete dovuto abbandonare?
Renato Valmori Abbandonare solo occasionalmente (durante il laboratorio): la tecnica imparata in anni di lavoro. Almeno quella esteriore della forma, che si estrinseca più che altro in una pulizia e precisione del gesto. Rimane però la tecnica interiore, cioè la consapevolezza di ciò che si fa, che ha a che fare con la presenza dell’attore. Ma spesso è più efficace la “freschezza” e inconsapevolezza del non-attore puro, cioè che non ha mai fatto l’attore.È molto difficile fare il non-attore, dimenticarsi di essere attore!
Il vostro è un teatro che da sempre si assume una funzione politica, oltre che poetica. A distanza di dieci anni, guardando indietro, a cosa è servito, questo percorso?
Alberto Grilli Sicuramente è servito a rafforzare la nostra identità, a farci riconoscere per quello che siamo davvero. È servito a sentirsi cittadini impegnati al cambiamento, a sentirsi parte di una comunità attiva che vuole costruire un mondo nuovo mettendo assieme tipologie di intervento differenti, (noi usiamo come strumento l’arte e lo sguardo), altri propongono competenze, professioni, impegno e vocazioni non così distanti dalle nostre.
Pensando agli anni a venire e alla concreta realtà della nostra società attuale, come immaginate si evolverà, questa vostra azione?
Angela Pezzi Gli italiani capiranno che non si può fermare l’immigrazione e per amore o per forza accoglieranno i migranti e saranno così intelligenti da capire che aiutandoli ad integrarsi nella società avranno tutto da guadagnare. Quindi il Teatro Due Mondi potrà andare in pensione!
Tanja Horstmann Oggi arrivano meno migranti a Faenza e nello stesso tempo sono cresciute le comunità delle varie nazioni presenti sul territorio. Sono reti sociali (i bengalesi, i nigeriani, i pakistani, …) che dieci anni fa esistevano meno e per questo l’incontro nel teatro era stato davvero il primo contatto con la comunità, per molti. Oggi le varie reti hanno tendenza ad essere racchiuse in sé stesse e i nostri interlocutori dei primi anni, coloro che ci aiutavano ad entrare in contatto con chi arrivava in città (Caritas, Cefal, Comunità Papa Giovanni XXIII, …), non si occupano più di prima accoglienza. Quindi il sogno dell’incontro, della conoscenza reciproca e di un’azione comune dell’intera comunità composta da persone di tutte le provenienze si allontana. Forse sarà proprio la chiusura attuale che farà nascere un bisogno rafforzato di incontro e di presenza fisica, quando si potrà uscire. In questo senso, penso che il progetto Senza Confini continuerà, sarà sempre aperto a tutti e potrà parlare di confini tra le nazioni ma anche di altre difficoltà per superare le distanze e l’isolamento.
Renato Valmori Abbiamo iniziato questa modalità di lavoro per rispondere a un’emergenza: prima le operaie dell’OMSA che avevano perso il lavoro, poi i rifugiati dislocati nel nostro territorio. Più è forte il problema presente nella società e più ha un senso quello che facciamo. Stiamo facendo qualcosa per combattere la situazione determinata dalla pandemia Covid. Per ora è fattibile farlo solo on line, non appena sarà possibile torneremo di nuovo in strada. Quello che sembrava un diritto acquisito e al quale non ci si faceva neppure più caso, il piacere di stare insieme, di abbracciarsi, di toccarsi, è praticamente sparito. La nuova sfida sarà quella di ricreare le relazioni tra le persone.
Una parola per sintetizzare il mondo che cercate di costruire con il vostro lavoro.
Angela Pezzi Speranza.
Alberto Grilli Relazione.
Renato Valmori Responsabilità.
Grazie.
MICHELE PASCARELLA
info: teatroduemondi.it
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