Giunti al nostro terzo ed ultimo appuntamento con i giovani designer del vivaio Altaroma, sempre nel contesto del progetto [R3]Circle – Riuso Riciclo Rigenero presentato da Altaroma in collaborazione con Maker Faire Rome – The European Edition di Make Faire –, parleremo di upcycling che con i loro brand danno prova di responsabilità etica, sociale e ambientale.
Upcycling inteso come nuovo modello di business attraverso il riutilizzo creativo di ogni tipo di materiale. Tessuti e rimanenze, vestiti in stock o invenduti possono essere il punto di partenza per un nuovo ciclo produttivo, per progettare e creare qualcosa di nuovo e diverso.
Upcycling è rinascita della filiera produttiva e filosofia dei designer che con la creatività ridefiniscono la nuova moda. Conosciamoli.
Fabrizio Consoli, ideatore e co-fondatore del brand Blue of Kind, lavora con tutto ciò che esiste e nei capi a km 0 unisce modernità, tradizione e sostenibilità. Si definiscono un ‘Fashion Design Studio’, focalizzato sulla sostenibilità con la specifica angolatura dell’upcycling.
Blue of Kind lavora con l’upcycling che di fatto significa riutilizzare e rinobilitare in qualche misura materiale di scarto, ossia, prendere qualcosa che ha un valore minore e portarlo ad un livello di valore maggiore.
Credono nel fare moda rispettando il pianeta e le sue risorse, la loro idea è quella di provare a fare una moda che piace e dà soddisfazione ad essere indossata pur mantenendo un atteggiamento sostenibile.
Il brand principalmente confeziona jeans, ma il denim per sua natura è un prodotto sporco, che spesso usa prodotti chimici e moltissima acqua, pertanto, fedeli alla loro filosofia, si servono di un metodo di lavorazione che comporta l’utilizzo di pochissima acqua, la stessa quantità di un lavaggio domestico.
Secondo un’estetica selezionano capi esistenti per poi condizionarli, smontarli e rilavorarli completamente sino a creare qualcosa di nuovo. Tutto ciò che fa parte dell’uso e della preesistenza del jeans e quindi le rotture, le rovinature, le abrasioni, i tagli per loro non sono difetti ma elementi di unicità.
La loro idea è quella di unire alla parte di upcycled una parte di sartorialità, il risultato del lavoro è ben visibile nell’etichetta cucita all’interno del pantalone dove si legge chi l’ha costruito, chi l’ha cucito e dove il jeans è stato trovato, il modello e il numero unico del pantalone.
Fashion for Planet è il brand di Yekaterina Ivankova, con abiti vintage e stock di materiali da vita a creazioni originali ed ecologiche.
Utilizza ciò che è già stato prodotto e parte da ciò che è stato scartato, riutilizza tutto, sia il capo in sè che i suoi vari elementi, dalla cerniera a qualsiasi cosa possa servire, cerca di recuperare il possibile e di non scartare niente.
La maggior caratteristica dei suoi capi è il pezzo unico, come trench, camicie e jeans, lavora sui capi apportando modifiche, attraverso il reworked cambiano forma e colori.
Il capo rappresentativo del brand è il trench fatto di pech, di etichette e cartellini, ‘perchè qua non si butta via niente’ (ndr). Su 100 kg di abbigliamento prodotto si butta via il minimo, anche quello ritagliato e scartato successivamente, ove possibile, viene riutilizzato.
Giulia Boccafogli, realizza gioielli a mano recuperando pregiati pellami. È designer del gioiello contemporaneo e del gioiello moda. Tutti i gioielli prendono vità all’interno del suo laboratorio a Como, non esternalizza nessuna lavorazione e sono realizzati con pellame di recupero. Lavorano con la materia dimenticata o ritenuta inutile dalle aziende, quindi scarti di lavorazione, fondi di magazzino ma anche pelli che vengono considerate difettose perchè macchiate o forate, rappresentando così anche una valida alternativa etica allo smaltimento.
Aspetto interessante è l’interdisciplinarietà delle tecniche utilizzate per la creazione dei gioielli, una di queste è il quilling (tecnica di stratificazione tipica della lavorazione della carta), si lavora attraverso la stratificazione dei pellami.
Letizia Cruciani, propone capi modulari e versatili che si possono declinare in più situazioni. Con Cru Le., il suo brand, sta lanciando un nuovo concetto di minimalismo con materie prime sostenibili e riciclate.
Alla base della sua idea pone una riflessione semplice e condivisibile: in passato si possedevano in tutto forse tre capi e in famiglia si riciclavano e si passavano di mano, per questo si dovevano trattare bene e con rispetto. Ora non si fa più, la fast fashion ha rivoluzionato e spostato gli equilibri.
Il suo brand parte da qui, dalla sostenibilità e dalla volontà di creare il suo modo di fare minimalismo, non banale, no basic o noioso, ma divertenete perchè questa è la moda.
E lo fa in modo originale, da una parte sfruttando la versatilità e la modularità dei singoli capi, ad esempio, togliendo le maniche il cappotto può diventare un copri spalla, altri pezzi poi sono interscambiabili e coprono le evenienze di tutta la giornata; dall’altra, in un’ottica di economia circolare, lo fa riducendo il numero delle collezioni e lavorando principalmente tessuti riciclati, o di fibra riciclata, come la lana.
È evidente come la filosofia e la produzione dei designer va in una direzione opposta e contraria a quella della grande produzione dove l’attenzione al risparmio energetico, idrico, di emissioni di CO2 e di utilizzo di prodotti chimici, nei casi più emblematici, è al minimo della soglia se non inesistente.
Upcycling è dunque da intendersi in un senso più ampio, come riciclo creativo ma anche come responsabilità etica e ambientale.
Upcycling è anche risparmio, termine che ciascuno dei designer declina a seconda della propria produzione, come nella lavorazione del jeans il risparmio principalmente è di acqua, quella utilizzata viene recuperata in modo da non inquinare mari e fiumi. Il risparmio sta anche nel rielaborare capi pronti e dotare l’azienda di fonti di energia rinnovabili per ridurre i gas serra.
Tutte pratiche incoraggianti si, ma per il cambiamento lo sforzo dei designer da solo non basta, occorre potersi riconoscere in un capo upcycled e sposarne lo spirito. Non tutti, però, hanno questa consapevolezza, ed è qui che entrano in gioco gli attori del sistema – produttori, artigiani, piccole imprese – che in qualche modo hanno la responsabilità di comunicare un concetto molto importante, ossia, che la sostenibilità non è legata solo all’aspetto produttivo ma è anche legata all’aspetto di consumo, quindi è necessario comprare meno e di qualità. Questo è il messaggio.
La buona notizia è che ora anche i grandi brand iniziano a parlare di sostenibilità e nell’epoca del Take, Make, Waste, affrontare questo argomento equivale a parlare di economia circolare, il processo virtuoso di materiali destinati ad essere rivalorizzati, che parte dalla produzione, arriva al consumatore e giunge sino al post-consumo, e di questa, ammettiamolo, la natura ci offre l’esempio più semplice dove niente va sprecato e tutto rientra in un cerchio. L’obiettivo, pertanto, è riprodurre e rientrare in questo cerchio in totale opposizione all’economia lineare e, quando si parla di moda, lo si può fare partendo da un capo usato, ridisegnato e immaginato diversamente per poi essere riutilizzato con una vendita second hand.
Ricordiamolo, siamo alla Maker Faire e si parla di tecnologia e di moda e, in un’ottica sempre di green economy, il digitale, più che mai in questo ultimo anno, si è dimostrato un suo grande alleato. L’e-commerce e le vendite online sono oramai una realtà e si comincia anche a parlare di camerini virtuali, di abiti da provare in 3D da smartphone o da PC.
La rivoluzione è già in atto, e il dialogo con i designer ha suscitato degli interrogativi ai quali si è cercato di dare delle risposte o perlomeno degli spunti di riflessione.
Questa rivoluzione mette tutti d’accordo o lascia ancora spazio al metodo tradizionale di business?
Sicuramente il 2020 ha accelerato delle dinamiche che di fatto erano già in atto e ciò ha giovato a chi in parte era una realtà consolidata che grazie alla vendita online ha ricevuto dei benefici. La rinuncia agli eventi in presenza ha significato intrapprendere una direzione nuova e decisamente non facile per l’intera filiera. Si tratta di ripensare il sistema e di avviare un processo di cambiamento epocale e si parla di fiere e showroom virtuali e di camerini di prova in 3D, ai quali di certo non si è ancora pronti ma è inevitabile che si arrivi a sfruttare la potenza infinita del digitale. Al momento un sistema così congeniato perché funzioni a pieno regime appare prematuro, ma forse il segreto della sua efficacia risiede nella sua umanizzazione anche a livello comunicativo. Sarà necessario, quindi, immaginare le aziende moda come un brand human piuttosto che come un corporate, che coinvolgano il fruitore all’interno della lavorazione, delle volte anche andando contro i principi che vengono definiti tradizionali, perchè oramai il digitale non si può ignorare.
Il futuro è il digital, ma come la mettiamo con i nuovi brand ancora sconosciuti, con i designer emergenti le cui creazioni per essere apprezzate devono essere toccate con mano?
La fast fashion ha drogato il mercato ma ha anche democratizzato la moda, è un dato che non si piuò ignorare. È ovvio come anche in questo caso la comunicazione gioca un ruolo fondamentale, ora più che mai occorre comunicare cosa c’è dietro ad un capo e abituare il consumatore a spendere di più per avere capi più duraturi e sostenibili. In questa partita assumono un ruolo determinante i buyer, è necessario che vadano nella direzione dei brand sostenibili e dei giovani designer così da alimentare il circuito virtuoso della moda sostenibile e la crescita naturale del mercato di riferimento.
Queste le criticità più evidenti, quindi, come fare andare di moda questa nuova moda?
In realtà la moda sostenibile è in circolo già da tempo e piuttosto attiva in diverse comunità, con un pubblico fortemente sensibile, ma occorre capire come questa effettivamente venga sviluppata.
Rimanendo nel contesto upcycling, il modo più attuale per farlo è quello di spostarsi nel digitale dove produttori, designer, artigiani e piccole imprese attraverso i canali social responsabilmente ribadiscono il concetto base: la sostenibilità non è legata solo all’aspetto produttivo ma anche all’aspetto del consumo, perciò è importante comunicare che è necessario comprare meno ma prodotti di qualità, e questa ambiziosa impresa la si compie educando il consumatore finale, rendendolo parte attiva dell’intero ciclo produttivo e orientandolo nelle scelte attraverso, e soprattutto, lo strumento dei social che è potentissimo.