In Italia sorgono dalla terra 141 teatri di matrice greco-latina. Emicicli all’aperto. Occupiamoli. Andiamo nei loro palchi e nei loro palcoscenici. Anche se vuoti, i teatri hanno voce. Hanno gola. Così come la conchiglia è l’unica forza della natura a fermare il vento, i teatri sono l’unica forza che blocca la natura. Perché la cultura è questa. Tutto ciò che è capace di fermare la natura. Fermarla, per liberarla.
La cultura è l’unico mezzo che, fin dalla notte e dalle albe dei tempi, ha avuto a disposizione il genere umano per liberare la sua natura e la natura del mondo. E il teatro è divenuto, via via nel viaggio dei giorni – dopo l’assestarsi dello stanziamento delle persone, non più costrette al nomadismo per sopravvivere, ma già dedite all’agricoltura – il punto d’incontro tra dio e l’uomo. Perché il teatro è meraviglia. L’etimologia, non da tutti amata, se sostenuta da una buona dose di semantica e di senso di realtà (unica fonte della verità), ci dà ancora una volta il gancio del marinaio per salvarci dalla procella: teatro deriva dalla parola sanscrita thaÿma, ossia meraviglia, guardare ed essere guardati attraverso la meraviglia delle cose del mondo e di dio. Dio: ossia, il potere. Ecco: il teatro, fucina della cultura, fa gola, da sempre, al potere. Nell’antichità minoica o sumerica, si gestivano i teatri con sacerdoti, vestali ed entità semidivine. La forma ad emiciclo è stata creata per non aver nessuno dietro le spalle di dio. Dio era il palcoscenico. Gli attori (colui che mette in moto) i suoi portavoce. Il potere è sempre stato geloso, fino allo stalkerismo assassino – si direbbe oggi – del teatro. Della cultura. Che oggi si frange in miliardi di rivoli.
E il potere, per impadronirsi della cultura, ha sempre agito in due modi: o distruggerla o conquistarla. La storia, ossia la narrazione della memoria, ce lo dice. Ogni tipo di civiltà – ossia l’umanità nella sua forma più perfetta: e ogni civiltà la pensa così – deve gestire comunque in prima persona la cultura. Poi, ogni periodo vive di flussi e riflussi. Di solito, quando viene distrutta una cultura, è perché il potere sta mutando in un altro potere. Quando i greci conquistavano una città, la distruggevano. E prima di loro facevano Ittiti, Parti, le sterminate orde orientali, ancora non classificate come Cina o Mongolia o Giappone.
Ora la cultura è sottovuoto. Messa in freezer. La causa, la pandemia. Bisogna contenerla. Con ogni mezzo. Così dice, anzi ordina, la scienza. Che fin da sempre è la plusvalenza del potere. Basti pensare agli sconosciuti inventori della ruota: incredibile, per allora. Da lì il mondo è cambiato. S’è ribaltato. Il potere – i primi re, voci delle divinità fulminee, ossia quelle che scendevano dai cieli sotto forma di baleno e fulmine – s’è subito appropriato della ruota. E ha innalzato la scienza di allora a sua fedele compagna (divinità e scienza, fino all’avvento del Rinascimento, di fatto, hanno sempre viaggiato a braccetto).
Bene, la scienza oggi detta legge. Nel senso che detta proprio le leggi, i celeberrimi Dpcm. Dove la cultura, ormai, non viene neanche più menzionata. Ciò significa, senza mezzi termini, che una civiltà è finita. Il potere sta mutando. Ha bisogno di altra cultura. Quella di oggi non basta. È obsoleta. Il potere, neooccidentale od orientale che sia, ne vuole una nuova.
Chi, quindi, lotterà perché questo non avvenga, esca, soprattutto ora che vigono i divieti del potere, e corra nei teatri vuoti. Dove ancora rifulgono i fulmini delle parole antiche. Si declamino ad alta voce tutti i poemi o i romanzi conosciuti. Si declamino dei nuovi. Aduniamoci a teatro. In Italia, all’aperto, ce ne sono 141. Usciamo. Coraggio, cuore senza oltraggio. Combattiamo. Salviamo la cultura, che il potere nuovo che si sta affacciando sotto forma di virus, qualunque esso sia, vuole abbattere con la sopraffazione.