Coltivare un giardino è un fatto naturale? Sì, almeno quanto è un fatto culturale. Quel recinto che lo circonda, quelle zolle rivoltate, quei solchi in cui riponiamo aspettative e speranze sono tra le conquiste fondamentali della civiltà umana, tanto che i termini cultura e coltura erano originariamente un solo vocabolo. Si potrebbe dire che l’orto è un connubio tra natura e cultura, in cui l’intervento umano determina la prevalenza dell’una o dell’altra. Se avete mai abbandonato un orto al suo destino, sapete con quanta rapidità svaniscono le tracce del vostro passaggio.
Mentre la natura è una e totale, le culture sono tante e particolari. Vi siete mai chiesti di che cultura fate parte quando vi chinate sulle aiuole? Facciamo qualche esempio.
Gino ha un bell’orto: ha comprato in un negozio le piantine pronte per essere trapiantate, il terriccio, il fertilizzante. Anche Pino ha un bell’orto; coltiva da sé le piante fin dal seme, le trapianta quando è il momento con il terriccio della sua compostiera, e alla fine avrà anche il seme per l’annata successiva. La cultura del primo orto è industriale, perché Gino acquista beni prodotti industrialmente e segue solo una parte del ciclo vegetativo, cioè sviluppo e produzione di cibo, delegando ad altri la produzione dei semi e la loro germinazione. La cultura del secondo orto è una cultura dell’autosufficienza, perché Pino opera al di fuori dell’ambito industriale e commerciale, e segue integralmente il ciclo vegetativo. Queste differenze influiscono anche sulla “natura” dei due orti. La semente di Gino è selezionata tecnologicamente per andare bene a tutti (ma anche per non essere riprodotta da Gino), mentre la semente di Pino, selezionata a mano, si modifica spontaneamente anno dopo anno, adattandosi a quel preciso luogo… e può anche essere scambiata o regalata per continuare a riprodursi altrove.
Lungi da me dare giudizi morali su Gino e Pino! Mi riconosco in entrambi.
Per quanto riguarda la Natura come condizione preesistente e permanente, cioè come sarebbe qui se non ci fosse l’orto e come concilio la sua tendenza al caos con il mio bisogno di ordine, si va dalla spietata cultura dello sterminio tramite bombardamenti chimici, fino al relativismo botanico fan**zzista, che preferisce osservare passivamente l’inesorabile avanzata di rovi e gramigna, afidi e cavolaie, inneggiando al metodo Fukuoka. Tra questi due sconsigliabili estremi esiste più di una terza via. Considerare lo spazio che coltiviamo come un luogo abitato, in cui ogni presenza vivente, piante, funghi, insetti e piccoli animali, ha buoni motivi per essere lì dov’è, anche dal nostro punto di vista. In questo modo scopriamo che la salute delle piante coltivate dipende in parte dalle nostre cure, ma anche e soprattutto dall’interazione tra tutti gli organismi con cui convivono. Tra le erbacce iniziamo a riconoscere piante officinali, o mangerecce, o preziosi indicatori delle caratteristiche del terreno, o piante pioniere che riportano fertilità. Iniziamo a capire che i cosiddetti insetti dannosi sono il cibo preferito dei cosiddetti insetti utili… in altre parole, se elimini gli afidi non vedrai le coccinelle.
ARAN