Pensieri e domande aperte a partire da due libri e un invito.
«Ciò che gli artisti sanno bene, è che non può darsi presenza senza rappresentazione»: è lapidario, il filosofo Jean-Luc Nancy – e con questa frase si potrebbe forse esaurire il progetto Teatro in streaming? no, sì, forse ma…, che l’indomita Compagnia napoletana e poi fiorentina Chille de la balanza ha programmato dal 9 al 12 dicembre (tutti i giorni alle 17.30, in diretta sulla loro pagina Facebook, un gruppetto di spettatori, artisti e critici dialogheranno su questo tema).
O forse no.
Claudio Ascoli, anima dell’ensemble assieme a Sissi Abbondanza, ci ha invitato a partecipare a una di queste conversazioni (sabato 12 dicembre) proprio mentre eravamo immersi nella lettura di due densissimi volumi che li riguardano: Pazzi di libertà. Il teatro dei Chille a 40 anni dalla Legge Basaglia, del 2018, e Napule ’70, appena pubblicato.
Questa fortuita sincronia ci dà l’occasione di condividere alcuni pensieri e domande aperte, che questi libri e l’iniziativa a cui parteciperemo hanno fatto sorgere.
I Chille, come i due volumi raccontano approfonditamente, hanno -da quasi mezzo secolo- fatto dell’essere in pulsante, finanche carnale relazione con la realtà (politica, cittadina, manicomiale, biografica o autobiografica che sia), la lingua e al contempo l’obiettivo del loro agire artistico.
Dunque, a rigor di logica, se per qualche motivo tale relazione non può aver luogo, l’azione è ontologicamente impossibile: come un nuotatore che volesse praticare il proprio sport in una piscina senz’acqua.
Fine del discorso.
O forse no.
Perché questo ostinato raccontarsi, e ascoltare, dà la possibilità di aprire alcune domande che possono riguardare tanto i Chille quanto la nostra esperienza di guardanti e, se è concesso allargare, di esseri umani tout court.
Come sappiamo, la presenza dal vivo è caratteristica peculiare e imprescindibile dell’arte teatrale. A differenza delle altre arti, come pittura, scultura o cinema, vi è la inderogabile necessità di un incontro di esseri umani in carne e ossa in un qui e ora irripetibile.
Detto altrimenti: il video di uno spettacolo non è uno spettacolo, così come la foto di una pizza non ce la può fare assaporare.
Forzando un po’ la mano, si potrebbe forse azzardare che ogni esperienza differita di tale arte (come, di fatto, lo sono anche i libri sul teatro) sia l’equivalente di una fruizione streaming.
Se così fosse, si dovrebbe allora domandarsi quale funzione una esperienza digitale (o editoriale) è chiamata ad assolvere.
La non-assenza? La memoria? L’auto-rappresentazione (laddove la rappresentazione in quanto tale sia impossibilitata)? La creazione di (nuovo) pensiero?
Possibili risposte, ma che forse riguardano più gli artisti-promotori.
In questa sede vorremmo virare il nostro piccolo discorso -Claudio e Sissi non ce ne vorranno- su ciò che riguarda il non artista: l’esperienza dello spettatore (a cui peraltro, come già accennato e come approfonditamente e con passione raccontato in primis dal critico teatrale Matteo Brighenti nei suddetti volumi, i Chille da sempre rivolgono la loro prioritaria attenzione).
Per farlo, prenderemo a prestito tre esempi provenienti dall’universo delle arti visive (et ultra) contemporanee.
Questo sia in omaggio a un’antica avventura dei Chille, il Teatro d’Aria, che come racconta Brighenti fu «installato la prima volta alla Fondazione Maeght (autorevolissima sede espositiva dedicata all’arte moderna e contemporanea N.d.R.), a Saint Paul de Vence, in Costa Azzurra, e inaugurato da Merce Cunningham e John Cage. Cunningham interviene sul luogo, Cage crea una partitura sonora usando i ventilatori», sia perché alcune stramberie proposte in quell’ambito hanno con tutta evidenza teso a problematizzare l’esperienza estetica, dunque etimologicamente conoscitiva, dello spettatore.
Primo esempio, che riguarda il corpo, e più specificamente i sensi, dello spettatore: Filippo Tommaso Marinetti, Tavola tattile, 1921.
Durante le furiose serate futuriste, tra un’Aerodanza di Giannina Censi e molte invettive dal palco del tipo «Lanciate un’idea e non solo pomodori, cretini!», questa o analoghe tavole venivano fatte passare tra gli (inferociti) spettatori affinché sperimentassero diverse, e non sempre piacevoli, percezioni corporee.
Abituati a platee ahinoi spesso illuminate da fastidiosissimi smartphone (abitudine cafona e molesta non certo dei pochi che leggeranno queste righe) vien da domandarsi: quale reale, sottile attenzione all’esperienza del corpo -dunque non unicamente emotiva o intellettiva- abbiamo posto, come spettatori, anche al di là di ogni eventuale intenzione dell’artista in scena (es: il cibo consumato assieme in Napule ’70)?
Se la risposta fosse «poca», oppure «nessuna», le domande seguenti potrebbero essere: «dove finivano il mio corpo, i miei sensi, in quei momenti? E dove finiscono, ogni giorno?».
Secondo esempio, che ha a che fare con il pericolo: Allan Kaprow, Yard, 1961, installazione di copertoni fuori da uno spazio espositivo. Alcuni coraggiosi la attraversano, cercando di non rompersi una caviglia, arrivano all’entrata e lo spazio è vuoto. Dunque? Cosa ci sta dicendo l’inventore dello happening (nomen omen: qualcosa che sta accadendo)? Forse un invito ad accorgersi, nel qui e ora, di ciò che -anche di non eccezionale- si esperisce. E, anche: quale livello di rischio siamo disposti a correre, per incontrare un fatto d’arte? In Stagioni, Festival e rassegne anche del contemporaneo (che avrebbero dunque il mandato, nonché i relativi finanziamenti pubblici, per farsi esploratori, sonde del nuovo) spesso si ritrovano i soliti cinque nomi e titoli, perché -ancorché parzialmente- più sicuri, garantiti nella presenza e nell’apprezzamento del pubblico: di cosa stiamo parlando, quando parliamo di ricerca, di sperimentazione nel campo delle arti performative?
Terzo esempio, più largo: Yoko Ono, Mend Piece, 1966. L’autorevole esponente di Fluxus (nonché la moglie antipatica di John Lennon, per molti) proponeva cocci di vasellame posti a fianco di un vasetto di colla: esplicito invito ad attivarsi (è l’aria dei tempi, da lì a due anni sarà il Sessantotto) e compiere un lavoro. Concreto. Di responsabilità. Per sé e per qualcosa che è altro da sé (in tutte le accezioni possibili).
I volumi dei e sui Chille hanno il merito di dar conto del loro fare e, al contempo, del contesto artistico, civile e storico in cui esso si colloca (decisamente nutrienti ed evocativi abbiamo trovato, in questo senso, il contributo di Peppe Dall’Acqua, psichiatra collaboratore di Franco Basaglia, nel libro che racconta il lavoro nell’ex città-manicomio e la documentatissima introduzione di Massimo Marino in Napule ’70).
Al di là di qualche temporaneo lockdown (il teatro -come ci insegna la storia- ha saputo resistere a ben altro) tali racconti, esperienze e orizzonti sembrano domandarci con forza quale attitudine all’ascolto, allo sporgerci, alla presa in carico abbiamo, come spettatori e come persone.
Di qua o di là dallo schermo.
Quel che importa è andare fino in fondo a ciò che si può fare, attingere una coerenza senza falle, far affiorare le questioni più nascoste, le più informulabili, per estrarne un mondo coeso. E siccome ciò che io cerco esiste appena, siccome l’essenziale è un quasi-niente, un non-so-che, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare l’impalpabile – qualcosa di cui si può intravedere l’apparizione, ma non verificarla, poiché svanisce nell’istante stesso in cui appare, poiché la prima volta è anche l’ultima.
[Vladimir Jankélévitch, Da qualche parte nell’incompiuto, Torino, Einaudi, 2012]
MICHELE PASCARELLA
PS il verso in apertura del titolo, Io qui, o io non qui, è una citazione da Hamlet Solo di Lenz Fondazione. Non ci addentreremo in questa creazione per evitare conflitti di interesse (da anni collaboriamo stabilmente con l’ensemble guidato a Parma da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto): abbiamo preso a prestito quelle parole perché perfettamente sintetiche del nostro piccolo discorso.
info > https://www.chille.it/ dirette Teatro in streaming? no, sì, forse ma… > https://www.facebook.com/chilledelabalanza