La drammaturga, coreografa e didatta (a cui La Biennale Danza di Venezia ha appena attribuito il Leone d’Argento) ha condotto nelle scorse settimane, con gli allievi dell’Atelier di Teatrodanza della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano – Corso Danzatore coordinato da Marinella Guatterini, un «seminario sulla dimensione temporale della danza». L’abbiamo intervistata.
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Qual è il rapporto fra educare e insegnare, nelle tue attuali idea e prassi di creazione?
Educare è praticamente la stessa cosa di insegnare nel mio caso particolare, che è quello di un Corso di Danza limitato nel tempo. E significa indicare lo schema dei movimenti e delle stasi da seguire. Ma poiché questo non è sufficiente, occorre anche riferire qualcosa sulla vicenda della danza che si va a interpretare. La danza è una vicenda dove si entra fisicamente. E poiché riferire queste cose a parole non basta, è indispensabile creare un ambiente temporale che abbracci tutta la giornata e che comprenda tutti i momenti diurni della vicenda fisica di chi balla, comprese le diverse disposizioni del corpo nelle differenti condizioni: la luce, il clima, gli stati psico-fisici in rapporto alle ore… Collocare la vicenda della danza nella vicenda reale del giorno. Insegnare i passaggi, educare alla condotta che, nel linguaggio corrente, forse si capisce di più col termine ‘atteggiamento’. L’atteggiamento è il porsi reale e attuale davanti a un fatto.
Realizzare la tua scuola all’interno di un’imponente istituzione didattica come la Paolo Grassi in cosa facilita e in cosa complica il percorso dei tuoi allievi?
Mi ha stupito che la Coordinatrice Marinella Guatterini mi abbia chiamata a dirigere la cosiddetta ‘Masterclass’ del Terzo Anno, perché ho lavorato per lo più in ombra tra i ‘recinti’ delle mie scuole, e ciò che ho fatto non è poi così vistoso. Ma ho accettato, perché una delle attività più interessanti che ha prodotto l’ultima mia Scuola, la Scuola Mòra, è stata la sua esportazione in ‘frammenti scolastici’, chiamati ‘Esercitazioni’. È molto interessante esportare nel mondo frammenti di vita ritmica che culminano in una danza. Comunque a Milano ho voluto portare uno schema coreografico ambizioso dal punto di vista tecnico, proprio perché mi aspettavo una preparazione atletica, mnemonica e ritmica abbastanza sviluppata. Gli Studenti sono stati oltremodo disponibili a studiare a ritmi serrati e hanno lavorato spendendosi molto. Quando, a conclusione del Corso, gli Studenti ci hanno invitato a un simpatico convivio, ci hanno riferito di sentirsi paradossalmente riposati, perché si percepivano all’intero di un ritmo corrispondente a quanto cercavano. Parlo al plurale, perché assieme a me hanno lavorato la danzatrice e coreografa Sissj Bassani, per la parte tecnica, e il danzatore, coreografo e didatta Alessandro Bedosti, per la parte coreografica. Entrambi hanno fatto parte della Scuola Mòra, la scuola di movimento ritmico, con base a Cesena fondata nel 2015, e questo non è un fatto secondario, perché implica una sequela al ritmo che ci ha affiatati negli anni.
Catalogue d’Oisaux di Olivier Messiaen è alla base del materiale coreografico su cui avete lavorato. Quali difficoltà e quali possibilità presenta, tale materiale sonoro?
Messiaen scopre nel canto degli uccelli un insegnamento che lo riempie di ricchezza ritmica, tant’è che formula l’espressione apparentemente controversa di ‘ritmo melodico’. Sì, perché finalmente coglie nel canto degli uccelli un ritmo non mensurale. Già Agostino lo aveva detto. Un conto è il ritmo, un conto è la misura. Il ritmo è sì misura, ma non in senso strumentale. Il ritmo è misura a se stesso: è una misura morale, che non serve a misurare le cose come uno strumento metronomico, ma a prendere decisioni sul momento. Dunque questa è la difficoltà maggiore per gli interpreti, al pianoforte o nella danza. È una musica che si inala; è una danza che si respira, anzi che prende un grande respiro che, senza interruzioni del discorso, continua fino alla fine. È una musica satura di presenza sonora, dove i numerosi e ampi spazi di silenzio sono una sostanza musicale, esattamente come le pause di cui la nostra danza è ricca.
In ossequio alle norme che tutelano la salute, l’esercitazione pubblica di fine corso non ha avuto, com’è consuetudine della Paolo Grassi, un esito spettacolare, ma è stata eseguita come dimostrazione di lavoro a porte chiuse. Qual è la funzione del pubblico, nelle opere che crei, e come in questo caso ha influito la sua mancanza?
Non vedo una funzione. Esiste un patto planetario che vede disposte –una di fronte all’altra– due parti umane: una di chi guarda e l’altra di chi si fa guardare. I due fronti vanno insieme, e vanno insieme perché stanno di fronte. C’è un ‘davanti’ parteggiato che pulsa finché si dà.
«La solitudine la si istituisce con gli altri, non è un problema da fugare con il contorno degli altri. È una dimensione di verità che si prova con gli altri, i quali non sono più gli artefici della sua eliminazione, bensì i complici della sua manifestazione. È qui che l’amicizia veramente comincia: quando non è un obiettivo, ma soltanto, obiettivamente, un dono azzurro»: così scrivevi nel tuo Setta. Scuola di tecnica drammatica (Quodlibet, 2015). A distanza di qualche anno intendi ancora la scuola come spazio comune, ma non comunitario (non affettivo)? Perché?
È ciò che specifica una relazione umana che un’invenzione come la scuola –tra poche altre, sa esprimere. E cioè il piacere di stare insieme per studiare, discutere, e assumere uno schema ginnico su cui muoversi. Tutto qui. Ed è tutto. Se invece si cominciano a caricare scopi quali la cordialità o la solidarietà o la fede o la militanza, si comincia ben presto a scivolare verso comunità nominali e personalistiche che fuorviano il piacere. La scuola è un’attività comune che non è detto generi amicizia, anche se di fatto un’amicizia sorge, ma non è del tipo di quella che comunemente si immagina. È più mirante a ciò che si ha in comune piuttosto che a se stessa. E ciò che si ha in comune è una sequela individuale che si compie assieme ad altri, non il mettersi al passo di un’identità da inseguire.
In che modo il tuo lavoro con la scrittura drammatica nutre il tuo insegnamento coreutico e, nello specifico, questo percorso alla Paolo Grassi?
Le due cose non si parlano. La danza è fatta perché ci si è liberati dalla parola. Certo abbiamo bisogno di numerose parole per dirci e per farci capire questo, ma di fatto è questo la danza: non sentire il bisogno di dire niente, e provare un senso di riposo e poi anche di soddisfazione nel pensare pensieri per cui non esistono -letteralmente- parole, ma soltanto comportamenti. La danza è sempre un fatto. La scrittura un dato di fatto.
MICHELE PASCARELLA