L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei
Viviamo di storie, raccontiamo storie e ci nutriamo di storie altrui se la nostra è momentaneamente o definitivamente vuota, mettendo altri al centro. Protagonisti. Apparentemente. Ci sono schemi, strutture, archetipi che, coscienti o meno, anche noi usiamo quando raccontiamo le storie. Le storie bisogna saperle raccontare. La stessa storia può essere raccontata bene e affascinare o raccontata male e annoiare. Parliamo di storie raccontate bene.
Omero ha il suo Ulisse, Odisseo, colui che è odiato, colui di cui in realtà nessuno, forse il cane, desidera davvero il ritorno – è più dolce l’attesa che non vederti tornare (V. Capossela). Ulysses è il quattrenne non protagonista de La commedia umana di William Saroyan (1943). È Ulysses che incontra un gigante, il grande Chris, che però è buono e lo salva da una trappola. È Ulysses che si perde nella notte buia e disperato incontra le sirene nascoste nella voce di un giovane strillone che vende giornali, ma quella voce lo salva perché è quella di un ragazzino del suo quartiere e lo riaccompagna a casa sua, a Ithaca Wine in California.
Il protagonista del romanzo è suo fratello Homer, 14 anni, portalettere due anni prima del dovuto perché il fratello maggiore è partito soldato in guerra. Il babbo ovviamente è morto. È Homer che deve mantenere la famiglia.
Ulysses è curioso, affascinato dal mondo, si perde in continuazione. Tutti lo adorano. Homer prende le cose sul serio perché vuole diventare qualcuno, anzi forse lo è già. È giudizioso, deve, vuole entrare ed entra nel mondo dei grandi, lottando, soffrendo le ingiustizie con rassegnazione, dignità e senso di responsabilità. Ma ancora una volta è il figliol prodigo che si (im)pone al centro della scena. Calma, dignità e classe.
La commedia è il rovescio della tragedia. Apparentemente. Perché se è umana, la tragedia è dietro l’angolo. Vale quindi la pena darsi tanto da fare per essere protagonisti? Dannarsi per essere ricordati? Per fare qualcosa di memorabile? A che serve?
Io non sono soltanto il ragazzo che la gente vede. Io sono anche qualcos’altro… qualcosa di meglio. A volte non so nemmeno a che mi serve. Io (non) racconto storie e racconto (non) storie.