L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei
Via delle Belle Arti, 54. Una figura scura mi passa davanti ed entra. Ha un andamento sicuro e uno stile impeccabile: pantaloni neri, maglia in tinta con la scritta Amen e un pellicciotto abbinato. Un ciuffo di capelli biondi spunta fuori dal cappello da marinaretto o carabiniere, non ne sono sicura. Ma su di lei non mi posso sbagliare: è Eva Robin’s. Bolognese, classe 1958, all’anagrafe Roberto Maurizio Coatti. A guardarla non diresti nessuna delle due cose. Adesso sta parlando con lo stilista bolognese Gaetano Navarra, curatore della serata Love is the new black alla quale sono stata invitata a partecipare. Gli mostra una valigetta piena di accessori da aggiungere al vestito che è stato scelto per lei. Un cappellino fucsia, un articolo di lingerie borchiata, un esuberante paio di scarpe con il tacco. Esattamente nel suo stile.
Attrice, modella, cantante. Per lei non sembra esistere una definizione unica. Eva Robin’s è uno spirito libero che non si può ingabbiare in un unico titolo. L’arte come esperienza continua, non esiste campo che non abbia sperimentato: «Ho attraversato diversi linguaggi: televisivi, cinematografici, musicali, quelli del palcoscenico. Ho iniziato con il Varietà con Syusy Blady e Patrizio Roversi. Cosa mi manca? Ah, ho fatto anche la Dj. Sì, ho fatto diverse cose, sai per sbarcare il lunario ci si adatta». Già, forse oggi ancora più di allora, penso con amarezza…
«Il linguaggio che preferisco è sicuramente quello teatrale. È quello che mi si addice maggiormente, che mi dà meno problemi anche a livello di primo piano, perché quando una donna, un’attrice diventa grande la distanza è sempre gradita». Sorride. Io in realtà la vedo da molto vicino. Non credo che la vicinanza possa danneggiarla davvero: sembra ancora una ragazzina. Comincia così a parlami della sua passione: «Quando ero bimbo – perché sono stata bimbo – ero in un collegio religioso di suore domenicane. Siccome avevo una bella voce bianca, mi misero una parrucca in testa e mi fecero recitare la scena di Parpignol da bambina nel secondo atto della Bohème. Tutti i giorni respiravo l’aria di questo vecchio teatro in disuso che c’era lì in collegio e così piano piano verso i 12-13 anni ho iniziato la metamorfosi da bruco a farfalla, e poi dopo mi sono dedicata alla mia attività attoriale».
La ammiro profondamente: in una società di conformisti, non si vergogna affatto della sua storia, nonostante le difficoltà che questa ha comportato: «Beh qualche pregiudizio si incontra, ad esempio quando dovevamo presentare Belle al Bar con la regìa di Benvenuti, prima ci avevano accettato poi ci negarono l’apparizione a Domenica In. Oppure un’altra volta per l’Isola dei Famosi, dovevo fare la seconda edizione, ma arrivò un nuovo direttore di rete che mandò all’aria il mio contratto».
Sono ricordi che forse non la feriscono più: nel teatro ha ritrovato se stessa.
Che cosa ama di più del teatro? «Un aspetto positivo è che ti permette di essere molti, di entrare in molti caratteri. Ogni volta è una battaglia per vincere me stessa e la difficoltà di un mondo ignoto, soprattutto perché non so ancora se riuscirò. Ma se hai un buon regista che ti guida, credimi, riesci ad affrontare l’inferno di un personaggio. Andrea Adriatico è il mio regista d’adozione. Con lui ho iniziato con La voce umana, poi abbiamo fatto tanti testi. Dipende sempre da chi ti giuda: allora io eseguo, metabolizzo il testo e lo faccio mio».
Qual è stato il suo personaggio preferito? «Winny in Giorni felici di Beckett con la regìa di Andrea Adriatico per Teatri di Vita. Ero completamente nuda, sepolta in un campo di mele. La protagonista è di solito sepolta in un campo di terra e invece Adriatico mi aveva vista come Eva nel paradiso terrestre e mi aveva sepolto nuda in un campo di mele. Poi il personaggio sprofonda e recita solo con la testa fuori. Quello è il personaggio che ho amato di più. Forse perché era un testo impervio, più difficoltoso».
La recitazione non è però solo difficoltà, ma anche divertimento: spesso gli errori fanno sorridere. «Certo, gli ‘orrori’ vengono sempre fuori. A me è capitato di avere delle lacune, dei vuoti. Mi è capitato ne L’Avaro di Molière: entro sul palco con Arpagone e io faccio questa parte di zingara mezzana che gli deve proporre Marianna, una bella ragazza. L’ho guardato: vuoto. La prima cosa che gli ho detto ‘La trovo molto bene’ e lui a me ‘Frosina cos’hai da dirmi?’. Dietro le quinte facevano le scommesse se sarei riuscita ad arrivare alla fine della scena oppure no. Poi ho saltato un pezzo divertentissimo, sette righe, a quel punto lui mi ha imbeccato in qualcosa, il file si è rimesso in moto e son partita».
Abbandoniamo il teatro e mi parla di un’altra sua passione: la pittura. Caspita, mi coglie impreparata: questa sua forma d’espressione mi era sconosciuta.
«Fare teatro, purtroppo, non è un lavoro continuativo: ci sono periodi di lunga attesa che però io colmo con la pittura, buttando in essa l’esubero di creatività e di stimoli artistici. Ho iniziato da bambino. Poi sono andato da un maestro bolognese e da lì ho incominciato. Faccio delle cose simpatiche, insomma esorcizzo la mia darkside, la mia parte oscura».
Tira fuori il suo iPhone e mi mostra un’immagine: è un cardinale, il viso non ben definito, le mani macchiate di sangue. «Allora, questo l’ho fatto proprio l’altro giorno. È un cardinale e siccome la Chiesa ha le mani sporche, l’ho fatto con le mani macchiate di sangue. L’ho realizzato dopo un lungo periodo in cui non riuscivo a fare niente. Blocco, non riuscivo neanche a fare un carboncino. Guardavo le cose del passato e dicevo ‘Li ho fatti io quelli?’». Ridiamo insieme, poi mi saluta radiosa. La guardo mentre si allontana ed entra nel grande camerino insieme a tutte le altre modelle.
L’Aula Magna è un ovale immerso nella penombra. Sparse per la stanza ci sono delle statue e su un lato un pianoforte. Le luci si spengono, le modelle cominciano a entrare. Eva è l’ultima, splendida nel suo abito lungo nero fatto di fili. Riconosco tutti gli accessori che aveva mostrato al regista prima del nostro incontro. Guardandola mi tornano in mente le sue parole: «Ho sfilato a Piazza di Spagna per Gatinoni, poi per Chiara Boni… Anche questa sera ci sarà un’interpretazione, non è solo una passeggiatina». E si vede. Sembra nata per stare sotto i riflettori. Progetti futuri?, le avevo chiesto: «Farò una piccola cosa in un buon film di qualità, di cui però non posso ancora parlare. Poi adesso riprendo L’Avaro di Molière con la regìa di Andrea Buscemi e Delirio di una trans populista di Jelinek con la regìa di Adriatico per Teatri di Vita. In più, ci sarebbe questo nuovo spettacolo teatrale con Andrea Adriatico che lui vuole chiamare In/finita. Dovrebbe essere un po’ il testo crepuscolare della mia vita. Proprio il viale del tramonto».
E improvvisamente mi pento di tutte le altre cose che non le ho chiesto.