«…Un viaggio simulato, l’anteprima di una futuribile – e futuristica – missione spaziale: l’equipaggio sarà separato dal mondo per 520 giorni, vivendo e lavorando nello stesso ambiente e alle stesse condizioni in cui vivranno e lavoreranno i primi esploratori terrestri di Marte, il cui decollo è previsto per il 2020…» (avvenire.it, 30 maggio 2010).
Siamo dunque un po’ in ritardo. Nonostante sia da tempo che abbiamo in testa il Pianeta Rosso. Il primo a pensarci seriamente fu nel 1948 il tedesco Wernher von Braun, creatore delle V1 e V2 naziste, arruolato dagli americani a guerra appena terminata. Non avevano ancora perso la Luna a danno degli Usa che i sovietici (nei tardi ’60) già simulavano missioni verso il Pianeta Rosso. Ci arrivarono nel 1971 con le sonde gemelle prive di equipaggio Mars 2 – che si schiantò – e Mars 3 che invece toccò il suolo marziano con successo e trasmise dati a Mosca per una quindicina di secondi prima di far perdere le sue tracce. Da allora sono stati innumerevoli i viaggi di sonde verso Marte ma la maggior parte delle missioni ha avuto un esito fallimentare.
La verità è che, se andare sulla Luna è stato un grande passo per l’Umanità, riuscire a farlo su Marte sarebbe un passo incommensurabile, ad oggi però più lungo di qualunque gamba conosciuta.
I problemi da sormontare sono un’infinità, alcuni nemmeno ancora immaginati. Ed è per questo che dal 2007 ad oggi si compiono dettagliate missioni a bordo del Nek, un simulatore nei sobborghi di Mosca che riproduce l’astronave destinata ad aggiungere un nuovo sostantivo al nostro dizionario: ammartaggio. La più importante di queste simulazioni, Mars 500, è cominciata il 3 giugno del 2010 concludendosi 520 giorni più tardi, il 4 novembre 2011. Il periodo di tempo necessario ai sei astronauti per arrivare in orbita su Marte (250 giorni), scendere ad esplorarlo su un finto suolo marziano con tanto di atmosfera rarefatta (30 giorni) e tornare coi piedi per Terra (240 giorni).
Durante questo test, tre russi, un cinese, un francese e un italo-colombiano hanno condiviso uno spazio vitale minimo (72mq di cui 3mq a testa per le cuccette), mangiato cibi in gran parte liofilizzati e non infiammatori (niente pomodoro, cioccolata, carne, uova, latticini, ecc tanto per intenderci), potendo comunicare con i tecnici di Mosca con risposte differite fino a 40 minuti dalla formulazione della domanda (il tempo che occorre al messaggio per percorrere la distanza tra Marte e Terra). Un quadro che è traducibile con due sole parole: stress pazzesco.
Proprio per tenere sotto controllo qualità del sonno ed equilibrio psicologico dell’equipaggio, un consorzio scientifico industriale italiano – Extreme prima, Tuscarnet oggi – ha affiancato l’Agenzia Spaziale Europea e Roscosmos durante questi anni di fondamentali test. Ne fa parte fin dall’inizio il Professor Angelo Gemignani, psichiatra e psicobiologo dell’Università di Pisa, già tra gli scienziati impegnati nella missione Mars 500. «All’epoca ci occupammo delle rilevazioni elettroencefalografiche a 128 canali (quando un normale EEG ne utilizza 32, ndr) sulla cosiddetta Sleep Slow Oscillation (SSO), l’onda madre del sonno la cui qualità è cruciale per poi essere performanti durante la veglia. Le condizioni intensamente stressanti di una simulazione tanto estrema finiscono con incidere pesantemente sulla SSO».
Una soluzione a questo problema l’hanno fornita proprio gli italiani. «Una stimolazione transcranica a corrente continua di bassa intensità inviata tramite elettrodi durante il sonno è in grado di sostenere la SSO e portare conseguentemente un maggior riposo e benessere agli astronauti. Nonostante ciò parliamo sempre di un contesto estremo. Li ho visti uscire dal Nek con i miei occhi dopo 520 giorni di isolamento: pur se selezionati attentamente tra 2.500 aspiranti di tutto il mondo – tutti individui cosiddetti supersani – ho trovato sei persone in condizioni psicofisiche davvero critiche, bastava un’occhiata per capirlo, altro che esami strumentali».
Condizioni critiche al punto da intaccare le risorse intellettive dell’equipaggio. «Uno dei test ripetuti durante il viaggio riguarda la capacità di scrivere un testo di almeno 500 parole su come è andata la giornata. È incredibile notare come le forme sintattiche e la struttura del testo si impoveriscano con l’aumentare dello stress accumulato. Alcuni di loro si sono trovati in forte difficoltà nell’arrivare a 500 parole, altri detestavano semplicemente l’idea di prendere in mano la penna».
Mars 500 ha oggi lasciato il posto alla missione Sirius, in cui anche il team italiano si è spinto oltre. «Gli astronauti che atterreranno su Marte – prosegue Gemignani – dovranno esplorarlo pilotando un rover. Si tratterà di un mezzo molto sofisticato da condurre in un ambiente estremamente impervio e quasi totalmente ignoto. Inutile dire che si tratterà di un’operazione con un eccezionale carico di stress. Se durante la prima simulazione ci occupavamo di correggere la fase del sonno, ora sperimentiamo tramite elettrodi nel casco degli astronauti la possibilità di stimolare elettricamente i lobi frontali in modo da migliorare le sue risposte durante la fase di veglia. In entrambi i casi si tratta di tecniche non invasive, non dolorose e non farmacologiche: le risposte dei test ci consentiranno, molto prima di arrivare su Marte, di avere ricadute positive su tutte quelle professioni che sono altamente stressogene sulla Terra (Vigili del Fuoco, controllori di volo, persino le casalinghe, ndr)».
Oltre agli studi sul rover il consorzio italiano sta sviluppando anche quelli su materassi ricchi di sensori e in grado di monitorare l’armonioso funzionamento dell’asse polmoni-cuore-cervello. Tra europei e russi sono complessivamente al lavoro ingegneri, psicologi, informatici e almeno un’altra dozzina di specialità e competenze diverse. Ma la cooperazione internazionale sfocerà in una missione congiunta sul Pianeta Rosso? Oppure siamo all’alba di una seconda corsa allo Spazio? «Bella domanda – sbuffa Gemignani – Penso che l’idea di base sia quella di uno sforzo comune, ma americani e russi hanno idee profondamente diverse sul format del viaggio».
Un punto nodale sono le radiazioni solari e come schermarle. «La stazione spaziale internazionale non ha questo problema, orbita nella fascia di Van Allen. Ma un’astronave per mesi nello spazio senza una schermatura adeguata espone l’equipaggio a un irreparabile danno cerebrale. Un anno e mezzo in quelle condizioni e vedremmo tornare i nostri astronauti morti o in preda a un’atrofia cerebrale simile all’Alzheimer. Ad oggi per schermare le radiazioni solari la tecnologia migliore sono ancora le lastre di piombo. Questo però renderebbe la nave pesantissima: gli americani vorrebbero ovviare al problema assemblandola in orbita o su una base lunare, i russi invece vorrebbero partire dall’equatore sfruttando l’effetto fionda della rotazione terrestre. E non è finita…».
Altri problemi? «Principalmente uno, la microgravità: oggi le missioni più lunghe nello spazio sono di circa sei mesi e al rientro ne servono altrettanti per ristabilirsi fisicamente. Qui si parla di una missione dalla durata per lo meno tripla. Anche se abbiamo condotto anni di simulazioni sulla Terra, servirà certamente almeno una simulazione come Mars 500 effettuata nello Spazio aperto. Poi alcuni pensano che una volta su Marte vada costruita una base, altri si spingono addirittura a ipotizzare la ‘terraformazione’ del pianeta di asimoviana memoria… Significa che non andremo su Marte almeno fino al 2030-2035».
Nemmeno recitando l’Ave Maria in latino? «Colgo la battuta. È ormai un dato consolidato in letteratura che il ritmo presente nella preghiera induca effetti benefici a carico della sfera sia psichica sia fisiologica. È stato osservato che il recitare l’Ave Maria in latino si associ a una sincronizzazione cardiorespiratoria caratterizzata da sei atti respiratori al minuto, condizione ideale per indurre il rilassamento profondo. Un dato che si osserva anche in altre pratiche meditative orientali. Ma no, non servirà pregare per ammartare prima».