Nel 1974 Irene (Greta Ferro), giovane milanese figlia di un operaio e una sarta, di fronte a un ambiente universitario che richiede una pedissequa ripetizione di concetti, anziché lo sviluppo di un pensiero critico, decide di lasciare gli studi e trovarsi un lavoro per non gravare sui genitori. Quasi per caso approda nella redazione di Appeal, una rivista di moda. Così inizia Made in Italy, ambientato a metà di un decennio complicato per il nostro Paese, percorso da istanze rivoluzionarie e sanguinosi attentati. Made in Italy si occupa di un altro tipo di rivoluzione, più pacifica ma anche più incisiva: il terremoto creativo che sconvolse la moda italiana degli anni Settanta, con epicentro a Milano. Con la scelta dell’argomento troviamo il primo punto di merito della fiction: quante volte abbiamo sentito dire che la moda e la nostra creatività sono risorse che tutto il mondo ci invidia? Tra serie tv e film, ancora nessuno aveva portato sul piccolo schermo questo periodo fondamentale per l’alta moda italiana. A colmare la lacuna sono stati i registi Luca Lucini e Ago Panini, mostrandoci il processo creativo dal di dentro e svelando i retroscena dietro la creazione di una nuova collezione o della la copertina di una rivista.
Irene viene presa sotto l’ala protettiva dell’esperta Rita Pasini (Margherita Buy), in una dinamica che ricorda molto quella tra Anne Hathaway e Meryl Streep nel Diavolo veste Prada. La giovane giornalista finisce per conoscere i più importanti esponenti della moda di quel periodo – Giorgio Armani, i Missoni, Versace e tanti altri – e per raccontarli nei suoi articoli. Ogni puntata uno stilista, presentato in maniera molto didascalica: una descrizione adatta a chi “ne sa poca”, ma che ha poco da dire a chi già conosce quel mondo e quel momento storico. La seconda nota di merito va all’attenzione con cui gli sceneggiatori hanno saputo descrivere il cambiamento del ruolo delle donne nella società, attraverso le visioni degli stilisti ma anche facendo entrale lo spettatore nella sfera privata di Irene e della sua collega e amica Monica (Fiammetta Cicogna). La prima ha una relazione borghese e conformista con un ragazzo che vorrebbe sposarla e a cui non piace l’autonomia lavorativa che la protagonista si sta conquistando; Monica, invece, è tutto meno che convenzionale e passa da un uomo all’altro senza legarsi sentimentalmente a nessuno di loro. I percorsi delle due si influenzeranno a vicenda, con esiti inaspettati dai quali emergerà una figura femminile capace di autodeterminarsi e di decidere in maniera autonoma del proprio futuro. Anche a costo di sfidare la volontà della propria famiglia.
Un personaggio che meritava una migliore scrittura, invece, è Rita Pasini, attorno alla quale aleggia un’aria di mistero. Dopo poche puntate si intuisce il suo dramma familiare, per il quale rischierà di buttare all’aria la carriera. Da qui il nodo più problematico e irrisolto della serie: qual è il legame tra il rinnovamento culturale dettato dalla moda e gli sconvolgimenti sociopolitici in atto? Se la narrazione della società e del suo cambiamento si esprime anche attraverso la moda, in che modo questa ha raccontato la violenza degli anni di piombo e come ne sono stati influenzati gli stilisti? Domande che restano senza risposta, nonostante il personaggio di Rita, a cavallo tra i due mondi, potesse essere usato per approfondire questo tema. La visione troppo semplicistica con cui vengono affrontate le situazioni più problematiche, molte delle quali risolte velocemente, caratterizza tutte le puntate. Viene da pensare che tale sbrigatività, in contrasto con quella dedicata a sviluppare alcuni personaggi femminili già citati, sia imputabile ad una scelta ben precisa e poco coraggiosa da parte della casa di produzione, ossia Mediaset: sebbene la serie sia già disponibile su Amazon Prime Video, in realtà è stata prodotta per il pubblico di Canale 5, su cui andrà in onda nelle prossime settimane. La rete generalista ha cercato di innovarsi proponendo la serie su una giovane piattaforma streaming, ma ha comunque voluto rivolgersi al suo pubblico tradizionale, offrendogli il solito prodotto patinato e non troppo perturbante.
In definitiva: Made in Italy ha un’ottima idea di fondo, le prove delle tre attrici principali sono interessanti e caratterizzano in maniera puntuale i rispettivi personaggi, le ambientazioni restituiscono nel modo giusto la Milano anni Settanta. La sensazione che rimane alla fine dell’ultima puntata, però, è quella di un’occasione sprecata. Peccato.