Abbiamo trascorso alcune dense ore con Teatro Akropolis partecipando a un dialogo, a uno spettacolo e a un seminario. Una breve cronaca.
«Lo spazio è un luogo praticato. Così la strada geograficamente definita da un’urbanistica è trasformata in spazio dai camminatori»: l’elementare distinzione offerta dal filosofo gesuita Michel de Certeau nel suo L’invenzione del quotidiano pare utile a tracciare un fil rouge, tra i molti possibili, per collegare gli atti performativi e di pensiero in cui ci siamo imbattuti in un giorno e mezzo trascorso a Genova in occasione dell’edizione numero dieci del Festival Testimonianze Ricerca Azioni a cura di Teatro Akropolis, ensemble che con pervicace rigore persegue da anni una via alta e altra di indagine dell’umano attraverso la pratica scenica e lo studio.
La relazione fra opera e modo, va da sé, è da sempre condizione necessaria alla sua stessa “esistenza in vita”. Ciò che connota le forme incontrate è come essa divenga prerequisito ineludibile, nutrimento essenziale a far sì che il fatto artistico possa accadere.
La relazione tra corpo e spazio, nomen omen, è stato l’elemento essenziale di Studio per Corpo centrale :: Genova, progetto di Città di Ebla che nel 2020 prenderà fattezze di spettacolo.
Con incedere da flâneur, il direttore artistico dell’ensemble forlivese Claudio Angelini ha guidato un dialogo che si prefiggeva di raccogliere materiali sul rapporto fra gli abitanti di Genova e la propria città, alla ricerca della possibilità di «far performare un luogo urbano»: il termine Studio qui usato va dunque inteso non nel senso gergale di presentazione di uno spettacolo non ancora (ri)finito ma in quello letterale di concreto momento di lavoro attorno a un progetto da farsi.
Ha avuto, al contrario, consistenza pienamente compiuta l’assolo Energheia di Paola Bianchi, presentato in prima assoluta.
Come la danzatrice e coreografa racconta nel denso volume che accompagna il Festival (tanto ci sarebbe da dire sull’instancabile attività editoriale di Teatro Akropolis, oltremodo meritoria in questi tempi bui), l’assolo è stato costruito a partire da qualche centinaio di immagini, «pubbliche e non personali», reperite interpellando una quarantina di persone «diverse per età, sesso e professione» e poi incarnate e composte attraverso un rigoroso e visionario processo di embodiment da cui è scaturita, in dialogo con una partitura sonora live di pulsazioni elettriche e distorte sonorità chitarristiche, una coreografia di tensioni e linee spezzate, intrecci e sovrapposizioni nella quale la dimensione muscolare, finanche ginnica, è parsa funzionale ad incarnare, piuttosto che ad imitare, le immagini-stimolo ricevute.
Vien da pensare a Egon Schiele, immediatamente, ma anche e soprattutto alla inderogabile relazione fra il corpo e lo spazio che lo costringe e al contempo lo fa esistere così come Gilles Deleuze lo legge nelle Figure di Francis Bacon.
In un serrato, potentissimo susseguirsi di spasmi e tremori, il corpo dolente e inquieto dell’interprete fonda la propria vibratile presenza sulla possibilità di farsi trasparente, o meglio di divenire veicolo di immagini, secondo una concezione antica di poeta come connettore, ancor prima che creatore.
Tanto altro si potrebbe dire su questo archivio di carne e tendini, di muscoli e ossa, dal quale affiorano in controluce istanze e tensioni che hanno fornito spinta propulsiva alle ricerche di Avangiardie, Neoavangiardie e, come qualcuno le definisce, Terze Avanguardie, nell’ultimo secolo o giù di lì.
Ma, al di là dei rimandi soggettivi o delle opinabili connessioni con la storia dell’arte, ciò che emerge con forza è la “lente scientifica” attraverso cui questa sapiente danzautrice ha trasdotto un materiale che se non trattato con rigore disciplinare sarebbe scaduto in un inutilmente generico pourparler,ma al contrario fondando, per dirla parafrasando ancora de Certeau, il luogo da cui pronunciare il proprio discorso coreutico: «Il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione».
Questo luogo, ça va sans dire, è il corpo nella sua relazione con lo spazio.
Il giorno seguente abbiamo partecipato all’incoraggiante seminario Per una politica della performance. Il teatro e la comunità a venire condotto dallo storico del teatro Marco De Marinis, con cui Teatro Akropolis ha da molti anni in essere un proteiforme, denso dialogo.
Lungi da noi la pretesa di sintetizzare la ridda di stimoli e riferimenti che questo fecondo atto di pensiero ha messo in campo, fornendo una nutriente cornice storica e teorica a quanto durante il Festival si è esperito in termini di costruzione pratica, non solo mero auspicio, di comunità.
Dire grazie, almeno.
MICHELE PASCARELLA
Visto a Genova il 14 e 15 novembre 2019 – info: http://www.teatroakropolis.com/testimonianze-ricerca-azioni/