Claudio Longhi, direttore di ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione e regista, racconta i due nuovi progetti dedicati allo scrittore Nobel per la letteratura.
–
Stanno per debuttare due spettacoli, La commedia della vanità e Nozze, realizzati a partire da testi giovanili di Elias Canetti. Perché proprio questo autore?
Canetti è sì un classico ma un “classico rimosso” all’interno del panorama letterario e intellettuale del Novecento: tutti ne riconoscono la grandezza (istituzionalizzata, peraltro, dall’assegnazione del Premio Nobel per la Letteratura nel 1981), ma le sue opere sono ancora poco conosciute e frequentate, almeno in Italia. Il progetto Canetti promosso da ERT, di cui fanno parte le messinscene della Commedia della vanità e di Nozze, è dunque il tentativo di attraversare questa grande macchina narrativa, teatrale e speculativa. In tal senso, è importante rimarcare la straordinaria attualità di Canetti: lui stesso ha qualificato il suo percorso come un gigantesco tentativo di prendere il secolo, per l’appunto il ’900, alla gola, di cercare di penetrarne le ragioni e le intime trame. L’opera di Canetti ci consegna un condensato prezioso dell’eredità lasciata dal Novecento, un’eredità ingombrante con cui fare i conti. Temi come la massa, il potere, la morte – che percorrono l’intera produzione canettiana – sono orizzonti concettuali al centro del secolo scorso. Se poi penso, nello specifico, a Commedia della vanità e a Nozze, le ragioni di interesse e di attualità sono da ricercarsi in una riflessione fondamentale per il nostro tempo presente sulle condizioni di esistenza di un’Europa che, in quanto comunità di nazioni, sta esplodendo. Commedia della vanità e Nozze sono due grandi canti, due epicedi, intorno alla finis Austriae ma, in realtà, sulla finis Europae. Mai come oggi è attuale interrogarsi sul fatto che la finis Austriae e la finis Europae si siano risolte a inizio Novecento con il bagno di sangue delle due guerre mondiali. In particolare, Commedia della vanità è un’indagine sul rapporto che lega la massa al potere, il populismo alla dittatura, il tutto tra l’altro radicato in un tema parimenti contemporaneo, quello della relazione che si dà tra immagine e identità. È possibile definire la propria identità attraverso la rappresentazione di sé, sotto forma di immagine, foto, ritratto…? Da un lato, risulta ovvio affermare che ridurre l’uomo alla sua immagine è atto sconsiderato. Dall’altro lato, però, se perdessimo la facoltà di rappresentarci, che destino avrebbe la nostra idea di identità? Commedia della vanità è, quindi, un testo altamente ambiguo, e in ciò sta una delle sue fondamentali conquiste: mette in discussione il concetto di identità, critica la civiltà dell’immagine ma questa stessa civiltà corrisponde a meccanismi antropologici molto fondi, che non si possono liquidare con leggerezza.
Quale trattamento è stato fatto, delle sue parole?
Posso rispondere essenzialmente per Commedia della vanità ma credo che, sebbene con sensibilità e modi diversi, le stesse questioni valgano per Nozze. In Commedia della vanità, il mio tentativo – che è, invero, lo spirito che mi anima sempre nel rapporto coi testi – è essere il più fedele possibile alla lettera e alle intenzioni della drammaturgia, nella consapevolezza, però, che ogni proposito di fedeltà si ribalta necessariamente in un atto di tradimento. Nel concreto, ciò cosa significa? Implica lavorare sull’idea della “maschera acustica”, tema dominante della scrittura teatrale e dell’antropologia di Canetti, figlio di Kraus e della registrazione delle voci della quotidianità. Si consideri un lavoro come Il testimone auricolare: al fondo di ogni carattere c’è una voce, un modo di dire le cose, quindi bisogna costruire acusticamente il linguaggio. In merito, la scrittura di Canetti in Commedia della vanità è evidentissima: tende a risolversi in una accurata partitura in cui l’apparente caos rivela un’orchestrazione sofisticata delle sue parti. Ne consegue che la costruzione dei personaggi passa attraverso la ricerca di questa maschera, che porta al cuore di un’altra delle tematiche centrali in Canetti: la dialettica tra immagine, superficie, profondità e azzeramento della profondità. In seno all’idea della maschera acustica è possibile scorgere una doppia possibilità: la superficie, la pellicola, lo spessore sono privi di profondità ma rappresentano il “trampolino” da cui tuffarsi per cercare la profondità stessa.
La commedia della vanità è da te diretta, mentre Nozze vede impegnato per la prima volta alla regia Lino Guanciale. Vi siete dati linee di lavoro comuni?
Io e Lino non ci siamo dati linee comuni ma partiamo da un affine sentimento: al di là del fatto che per la prima volta lavoriamo su opere di Canetti e, per la precisione, separatamente su testi diversi, più volte abbiamo incontrato Canetti nel nostro percorso precedente. Ad esempio, negli anni in cui insegnavo allo IUAV di Venezia, chiesi a Lino di collaborare con l’Università per un laboratorio di teatro che portò alla messinscena proprio della Commedia della vanità; più in generale, spesso abbiamo scelto di utilizzare frammenti della stessa Commedia, a partire dal grande Prologo, come materiale didattico dell’esperienza pedagogica che abbiamo sviluppato insieme. Non ci siamo detti: “Seguiamo questo criterio”, non ce n’è stato bisogno, da anni ragioniamo e ci confrontiamo sulle parole e sul pensiero di Canetti: semplicemente è come se fosse arrivato il momento di affrontare questa passione radicalmente ed esplicitamente per vedere dove un simile corpo a corpo potrà condurci.
Nel tuo spettacolo sono in scena quasi trenta attori: un’enormità, per le produzioni odierne. Per quale motivo si sono rese necessarie così tante presenze?
Perché Commedia della vanità è scritta così, è in fondo un testo corale molto strano, basato su un meccanismo generativo trasformazionale contraddistinto da un sistema di riflessioni speculari: in altre parole, la struttura si articola grazie a un complesso di scene che si sdoppiano l’una nell’altra e si sviluppano attraverso un processo di geminazione che riprende, variandole, le scene precedenti. Ci troviamo di fronte a un testo polifonico e, al contempo, a un unico flusso monologante affidato a una sola persona che si guarda all’interno di specchi anamorfici. Personalmente sono convinto che, per lo stretto rapporto che questo testo ha con la massa, è necessario garantirne l’impianto corale. Ci si potrebbe, a questo punto, chiedere: perché scegliere una drammaturgia che implica condizioni produttive così complesse? La risposta è duplice. Lo spettacolo è il primo approdo all’universo professionale dei giovani attori della nostra Scuola di Teatro Iolanda Gazzerro, che con l’esperienza di Tutto fa brodo hanno avuto modo di concludere il loro percorso pedagogico e ora incontrano la dimensione professionale pura. Per un Teatro Nazionale che ha una Scuola, è un gesto di responsabilità farsi carico dell’accompagnamento al mondo del lavoro degli allievi che ha formato. Allo stesso tempo, credo che appartenga alla missione di un Teatro Nazionale misurarsi con progetti che pochi altri soggetti teatrali potrebbero affrontare in ragione della complessità produttiva di queste operazioni. In sintesi, si compenetrano due piani: accompagnamento al lavoro di giovani allievi attori e assunzione del rischio culturale.
Quali scoperte ha reso possibile questo allestimento, rispetto alla tua pregressa conoscenza di Canetti?
L’esplorazione della macchina della Commedia della vanità mi ha consentito di prendere consapevolezza della straordinaria perizia e della monomaniacale precisione con cui Canetti costruisce la propria scrittura; ne avevo il sospetto ma è stato solo lavorandoci sopra che ho potuto testare come una commedia che, a prima vista, può apparire una chiassosa e grottesca kermesse sia un diamante in cui ogni faccia è intagliata con precisione infinita e con un raffinato meccanismo di straniamento che gioca continuamente con i due risvolti del disvelamento e dell’occultamento. La sapienza teatrale di Canetti è degna di un commediografo di grande esperienza, mentre di fatto ci troviamo davanti a un giovane autore che muove i primi, e unici, passi che poi effettivamente dedicherà nella sua vita al teatro. A ciò si accompagna un’altra scoperta, legata alla possibilità di osservare come un oggetto così esatto si traduca in una specie di dispositivo di senso polimorfo, per cui è difficile consegnare un’immagine fissa della Commedia della vanità; sulla base delle differenti angolazioni visuali dalle quali lo si osserva, il testo cambia di senso. Basti pensare alla dialettica complessiva che si sviluppa intorno all’idea di noi, sospesa tra l’orizzonte della massa e quello della comunità: a seconda che il noi sia massa o comunità, muta il senso del discorso generale.
E quali sorprese potrà portare allo spettatore, secondo te?
Mi auguro che la sorpresa più grande per gli spettatori e per i lettori possa essere quella di scoprire come un intellettuale apparentemente così austero e classico, con tutto il carico di intimidatorietà che l’idea di classico porta brechtianamente con sé, sia di fatto un autore estremamente godibile nel senso più fondo della parola, e dunque divertente. Non so quanto Canetti avrebbe apprezzato questa chiosa – considerato il suo disamore nei confronti di Brecht – ma la sua scrittura dimostra che aveva ragione lo stesso Brecht nell’affermare che il teatro, quando è vero teatro, è sempre teatro di divertimento.
MICHELE PASCARELLA
info: emiliaromagnateatro.com