Il termine greco techné non si riferisce solo alla tecnica e al fare artigianale, ma anche all’arte intesa come poiésis. Intrecciando in un’unica parola questi due concetti, i greci fornivano una definizione di artista artigiano, che lavora con consapevolezza delle possibilità tecniche e con competenza espressiva. Ecco perché i protagonisti de I Babelici sono da considerarsi artisti: artigiani autodidatti che hanno deciso di consacrare la loro vita a un’opera di creazione.
Come è nata l’idea del film? «Sono partito – racconta il regista Alessandro Quadretti – su suggerimento dell’amica fotografa Silvia Camporesi, consultando il sito e il libro sui Costruttori di Babele italiani, che sono progetti coordinati dall’antropologo ligure Gabriele Mina: negli anni ha censito una serie di questi autodidatti dell’arte, produttori di architetture fantastiche che si muovono al di fuori del mondo dell’arte con leggerezza, senza nessuna prosopopea. Lui mi ha suggerito un primo inedito, Mancini di Massa Lombarda, che ancora non era stato raccontato e ‘schedato’; lo stesso Mancio mi ha poi suggerito Padovani di Imola. Infine, un amico mi ha presentato suo zio, Elio Cangini detto Gianè, che purtroppo è venuto a mancare lo scorso marzo, pochi giorni dopo la proiezione forlivese del film. È così che ho scelto questi tre signori romagnoli, diversi ma accomunati dalla passione per la raccolta di materiali di scarto che loro rigenerano per creare arte irregolare. Il documentario ha potuto vedere la luce grazie ad un crowdfunding ed al contributo di Romagna Acque. Un piccolo budget ma tanti risultati: il film è stato selezionato da Festival italiani, spagnoli, cechi, greci, russi, ecc.».
Che lavoro si è svolto con gli «attori»? «Li abbiamo ripresi durante le loro attività di ricerca, di raccolta, di creazione: dai metalli, dalla plastica e quant’altro utili alla realizzazione delle visionarie sculture di Renato Mancini, ai sassi (anche enormi) per la costruzione di una sorta di valle dei dinosauri allestita da Emilio Padovani, ai legni, alle pietre e ai vetri di Gianè, instancabile accumulatore, che ha costruito da par suo un tunnel di legni intrecciati e addirittura riscoperto e decorato una tomba etrusca. Si sono raccontati così, sia nella classica intervista statica, sia durante il loro lavoro di raccolta e assemblaggio materiali».
Nessuno di loro si percepisce come un artista. Qual è la tua idea in proposito? «Fatico io stesso ad esprimere una definizione coerente e comprensibile di artista, del suo ruolo e delle sue prerogative; di sicuro questi bizzarri babelici pongono degli stimolanti interrogativi sulle strade che portano alla creatività e alla bellezza. Credo che ci raccontino un bisogno spasmodico di interpretare il proprio universo, piccolo o grande che sia, senza premeditare una strategia comunicativa e commerciale. La definirei una creatività spontanea, artigianale e un po’ folle».
Quali sono, secondo te, i pregi che contraddistinguono queste opere e qual è il loro valore aggiunto per raccontare il territorio? «Quello che più mi colpisce del loro modo di operare è la capacità di raccogliere gli ‘scarti’ dei rispettivi territori per creare, negli spazi privati dei babelici, cattedrali votate alla creatività e alla fantasia più sfrenate: il sacro, il profano, la mistica, la sensualità e il ludico sono mescolati senza misura, nella libertà più sfrenata, illogica e irriverente. Se questa non è arte, di sicuro è un gran bel gioco».
I BABELICI, di Alessandro Quadretti, 2018