Una vivace tensione dialettica fra trascendenza e immanenza pare accomunare, inaspettatamente, quattro proposizioni performative, formalmente diversissime tra loro, da noi incontrate nei giorni scorsi nell’ambito del prestigioso Festival romagnolo.
Tra sacro e mondano.
O meglio: tendere al primo stato mediante il secondo.
Termini non antitetici ma complementari: là dove l’immanenza (o mondanità) concerne il “consistere”, la trascendenza (o sacralità) riguarda le diverse maniere in cui un’opera -giacché di questo si tratta- può travalicare la relazione con la consistenza che assume.
Ecco dunque, va da sé, che la forma (e non più diverse fra loro potrebbero essere quelle evocate in queste poche righe) non identifica l’opera d’arte, quanto l’opera dell’arte: ciò che essa produce.
Con le dinamiche, di relazione appunto, che essa attiva.
Relazione con ciò che è altro da sé: umano et ultra.
In questo senso specifico crediamo plausibile far risuonare le campiture di luce monocroma della rigorosa coreografia di We Want Miles, in a Silent Way di gruppo nanou con il chiostro che ha accolto il dialogo fra il canto greco bizantino di Nektaria Karantzi coi suoni ben temperati della tastiera del pianoforte di Vassilis Tsabropoulos e, su scala più ampia (numericamente e produttivamente) i mosaici mozzafiato della Basilica di Sant’Apollinare in Classe in cui è accaduto il monumentale Kanon Pokajanen di Arvo Pärt con le strade, i giardini e i cortili della città attraversati dal Purgatorio del Teatro delle Albe: luoghi che han fatto da contenitore, culla e trampolino a un altrove che si è potuto scorgere attraverso quei corpi, mediante quelle voci, grazie a quegli spazi.
Il verbo trascendere, com’è noto, nell’etimologia rimanda all’atto fisico dello scavalcare.
Cercare qualche cosa di altro, di sacro, attraverso il corpo.
Sacro.
Termine scivolosamente ampio.
Se il concetto di sacro è forse indefinibile, non lo è la realtà che esso esprime.
Esso appare come una qualità che può essere propria delle più varie cose: di luoghi (i templi, i santuari naturali – nel nostro caso: dal teatro più importante della città al più grande esempio di basilica paleocristiana al mondo, ecc), di periodi di tempo (le feste, che con il loro carattere si contrappongono ai giorni comuni), di azioni (per esempio il rito – di cui segni e simbologie è intriso l’intero attraversamento orchestrato dal Teatro delle Albe, un andare punteggiato di soglie che si fanno simbolo, segno, lingua), di testi pronunciati, narrati o scritti (formule, miti, scritture sacre – il Canone di penitenza musicato da Pärt, gli inni di Karantzi e Tsabropoulos), di persone (il re divino, certi tipi di sacerdoti), di oggetti (feticci, strumenti rituali, sistemi di segni – quale diviene la minimale drammaturgia cromatica articolata da gruppo nanou).
In tutti questi casi la qualità di sacro richiede un comportamento umano particolare, differente cioè dal comportamento di fronte allo stesso genere di cose se considerate prive di sacralità.
Alcuni esempi (noti a tutti): a un luogo sacro si accede, e vi si rimane, in determinate condizioni (per esempio a piedi nudi, a capo coperto, in silenzio), nel tempo sacro si sospendono le attività profane (il lavoro, la pulizia, il mangiare), un racconto sacro (un mito, una formula rituale) si narra in specifiche occasioni (per esempio di notte o prima della mietitura), di fronte a una persona sacra sono obbligatorie certe cose (per esempio il prostrarsi) e proibite altre (per esempio il toccarla).
E, come ogni frequentatore di sale e spazi di spettacolo e concerto ben sa, azioni e attitudini più o meno adeguate a quei contesti, culturali ma innanzi tutto sociali.
Obblighi e divieti particolari che trovano corrispondenza nella convinzione che la sacralità significhi o comporti una particolare potenza nelle cose o persone che ne sono investite: caratteristica che può essere del tutto indefinita e impersonale, dunque sovrannaturale, oppure concepita come derivata da un soggetto che la conferisce a esse.
Questo è ciò che accade, ad esempio, nel caso dell’arte, pratica in cui d’abitudine il senso del sacro viene definito per svuotamento, o per accumulo, di segni.
Le quattro proposte da noi incontrate nei giorni scorsi al Ravenna Festival accolgono questa seconda possibilità, intridendo un’esperienza che per altri sarebbe stata in sé bastante (l’attraversamento o il mero stare di/in un luogo strabordante di Storia, di storie, di bios) di una serie di elementi (testuali, sonori, visivi, esperienziali) volti, pare di poter affermare, ad intensificare/ampliare ciò che lo spettatore/camminatore esperisce, fornendo ulteriori chiavi di lettura e di accesso all’incontro con quel determinato pezzetto di mondo, e di sé.
Detto altrimenti: queste quattro proposizioni paiono porre una questione alla postura del soggetto guardante, sorta di flâneur eterodiretto, rispetto alla possibilità di pronunciare un discorso mediante le pratiche di attraversamento e stanzialità dello spazio pubblico.
In questo senso interrogativo pare corretto affacciarsi ai modi-mondi che grazie al Ravenna Festival abbiamo avuto la possibilità di attraversare nei giorni scorsi, ponendo attenzione proprio là dove l’opera, in guisa di segnale stradale, indica qualcosa che è altro da sé.
Se l’immanenza (o mondanità, o forma) appartiene all’ordine dell’essere la trascendenza (o sacralità, o funzione) pertiene all’ordine del fare, dell’agire: essa dipende dal rapporto (estremamente variabile) tra l’oggetto di immanenza e l’effetto che esso esercita, o meno, sui suoi riceventi.
Detto altrimenti: se l’immanenza definisce in qualche maniera l’opera in stato di riposo (o, meglio, di attesa), la trascendenza mostra l’opera in azione, l’arte all’opera.
E allora, e ancora, l’impossibile (e per questo commovente) tentativo di far incontrare la rigida suddivisione in semitoni del sistema tonale a temperamento equabile del pianoforte con l’arcaica modalità della musica bizantina dominata dalla flessibilità melodica della voce risuona nell’albesca convocazione di un Beuys con le antenne, alla ricerca di connessioni altre e, a rigore, egualmente irrealizzabili. Allo stesso modo, ma in forma vivaddio diversa, il serrato dialogo tra sinestesia e cinestesia nel Davis coreografato da nanou dialoga, in solo apparente distanza siderale, con il testo scritto da Sant’Andrea da Creta ormai quattordici secoli or sono, «canto del cambiamento e della trasformazione» eseguito con vibratile asciuttezza dall’Estonian Philharmonic Chamber Choir diretto da Kaspars Putniņš.
Nel caso dei due ensemble ravennati, Albe e nanou -certo le realtà da noi più a lungo conosciute, fra quelle nominate in queste righe- abbiamo ritrovato tòpoi e stilemi, attitudini e magnitudini.
In sintesi e conclusione, pare di poter azzardare, il dato più intrigante di queste quattro proposizioni è ciò che esse non hanno toccato, ciò che è ontologicamente impossibile raggiungere, o almeno definire.
È questa mancanza, forse, a renderle al contempo mondane e sacre, microscopiche e smisurate avventure dell’umano.
«Fa’ che, cerca di, tendi a», direbbe Andrea Zanzotto, poeta.
Sineddoche di tale fecondo paradosso, ai nostri occhi, è stata la scena con l’Ugo Capeto interpretato da Luigi Dadina nel Purgatorio delle Albe: sorta di Orazione nell’orto dolente e feroce, greve e leggiadra, animalesca e santa. Del tutto indimenticabile.
MICHELE PASCARELLA
info: ravennafestival.org