Una giornata nel pianeta Fies con Emanuele Coccia, Riccardo Falcinelli, Riccardo Giacconi, Andrea Morbio, Silvia Costa, Anne Lise Le Gac, Arthur Chambry e Alessandro Sciarroni.
Non serve che Emanuele Coccia e Riccardo Falcinelli ci ricordino quanto la cultura sia cornice retorica arbitraria per inquadrare il presunto (o defunto) e ibrido naturale. Parlare di museo d’arte contemporanea per la natura non è che una pallida perlaborazione (direbbe Freud) delle profezie che Drofles scrisse nell’insuperato Natura e artificio. L’intervento del filosofo à la page e del designer, calzano però a pennello nel tema con cui Fies ha deciso di declinare il suo cartellone: l’ipernatural, mondo in cui la comunicazione reciproca del tutto è legge dell’evoluzione.
Le pillole di Falcinelli distribuite nel talk del parco della Centrale confermano il ruolo dei mediatori, strumento utile per decifrare il lavoro di Andrea Morbio, Riccardo Giacocni e Silvia Costa. Apparentemente la loro ossessione per il caso del serial killer Simone Pianetti (ci lavorano da parecchi anni) sembra la versione più cruda e rozza di un progetto “alla Fanny & Alexander”. La macchia ha un tavolo al centro della sala, due microfoni e le voci registrate di alcuni abitanti del paesino del bergamasco dove nel 1914 il Pianetti uccise sette persone. Il recupero dei frammenti è però più di un radiodramma e i mediatori appunto (tavoli e microfoni) sono i postulati di temporalità molteplici, espanse e disperse. Aldilà che il tavolo possa essere banalmente un rimando ad una ritualità celebrativa che ricuce i pezzi attraverso gli oggetti (altri mediatori), il lavoro conferma quanto l’eterogeneo sia diventato il regime corrente del visibile.
Angosciati dalla profusione dei suoni generati come segmenti da percorrere, ci si focalizza sul primo filo di Arianna che ci consenta di uscirne. Da qui il ruolo dei legami, delle guide, dei percorsi e delle narrazioni. Ogni voce è un tempo che genera una costellazione di memorie. Ogni simbolo è un dinamogramma che rilascia la sua carica in funzione del contesto in cui si trova: l’opera si evolve nel tempo e nello spazio. Le voci della Costa e di Morbio vivono in un tempo eterocronico che trasforma i quadri culturali (quelli di Falcinelli) in base alle modalità con cui vengono scaricate in ambienti diversi. L’opera si fa registrazione programmata per un viaggio nel temporalità, “ogni opera è ontologicamente in ritardo e noi ne percepiamo solo i frammenti sparsi nel contesto, attraverso cui ne prendiamo coscienza” scriveva Duchamp nel suo Ritardo in vetro.
Opera come biforcazione temporale. Più biforcazioni invece in Ductus Midi e indecifrabili le traiettorie. Anne Lise Gac le traccia per terra seminando polvere come faceva Yotoi Yamamoto, Arthur Chambry invece le intona dentro un canto che vorrebbe innestarsi ad un canto cosmico, universale, pitagorico. Siamo in un laboratorio, in un atelier dell’Opus alchemica
L’arte contemporanea post-produce la realtà sociale attraverso mezzi formali, mete in luce quegli stessi montaggi formali di cui essa stessa si costituisce. I due artisti – più o meno consciamente, vista l’età – fanno propria la lezione di Fluxus: nessuna partenza, nessuna meta, solo deriva.
Anche qui si dà forma destrutturata alla natura transitoria e circostanziale delle situazioni che strutturano la vita sociale. Frammenti di conversazioni da Cantatrice calva cercano di mantenere vivo il concetto di intervento sul mondo ed estendere il potenziale creativo dell’essere umano. Si chiamerà Ductus come il fischiettio del chiocciolo di Christophe Manivet. Il palco, come l’orizzonte del contemporaneo, è dominato da materia vaselinica (Richard Serra del Cremaster Cycle), polverizzazione, dispersione e concatenamento. Cespugli, costellazioni, ragnatele, arcipelaghi.
Le relazioni, le traiettorie appunto predominano sugli oggetti, l’arborescenza sui punti, il passaggio sulla presenza, i vari percorsi sembrano più importanti delle stazioni che si incontrano per strada.
Lo spazio si fa costellazione temporale, una supernova di cui ascoltiamo il tempo ritmico degli strumenti artigianali più che lo spazio. La specificità della costellazione è il suo carattere teleo-cronico, un insieme di stelle le cui proiezioni celesti sono sufficientemente vicine per essere collegate con linee immaginarie, sembrano figure ma gli astri che le compongono sono lontane anni luce.
Analogie formali, figure per la formazione di un oggetto arbitrario attraverso al connessione di elementi sparsi. Lo spettatore si fa semionauta per trovare una forma che leghi la molteplicità dei segni sparsi o dei gesti che compongono un comportamento.
Poche righe dedichiamo invece all’atteso Augusto, omaggio di Sciarroni alla figura del clown.
Il seriosissimo Leone d’oro della Biennale lo riduce ad una variazione sulla risata che copre non solo le macerie coreografiche ma anche quell’urlo banalmente alla Munch di ogni sofferenza umana. Una risata ad oltranza per dire la rabbia, la gioia, l’euforia e solo un canto e un urlo appunto, per interrompere lo spartito dell’ilarità forzata. Il circo per Sciarroni è circolarità. La risata dovrebbe nauseare per eccesso, come la zuppa per Warhol, stessa minestra anche qui. Qualcuno sugli spalti ride per non piangere ma sul palco della Turbina 1 la risata è decisamente post nietzschiana. Avete presente l’uovo che su Instagram ha raccolto milioni di followers? Sciarroni da attento osservatore della transmedialità ne ha fatto tesoro. L’uovo è presente a se stesso e immediato nel consumo, è naturale, assoluto, indiscutibile, astratto e figurativo: fuori è una risata dentro, come scrisse quel drammaturgo agrigentino, semplicemente vuoto.
SIMONE AZZONI
info: centralefies.it