I bambini degli anni ’60, soprattutto quelli della middle class, sono cresciuti a pane e corse spaziali. Certo, non solo. Ma è sicuramente vero che se chiedevi a uno di loro in quale squadra giocava Sormani e come si chiamava la navicella spaziale americana, impiegavano la stessa frazione di secondo per risponderti: Milan e Gemini.
Probabilmente la stessa cosa accadeva anche per i bambini che vivevano “dall’altra parte della città” (la città di Franz, per capirci), con la sola differenza che magari loro erano più veloci a rispondere Leonov se gli domandavi chi fosse stato il primo uomo a compiere la passeggiata nello spazio, mentre io ero imbattibile nel rispondere velocemente col suo omologo americano: White!
Nel nostro universo infantile il tema della conquista dello spazio era pari grado a quello dei cow-boy, o dei sudisti-nordisti, o delle macchinine. Bastava guardare gli scaffali di un negozio di giocattoli per rendersene conto. O sfogliare un qualsiasi Topolino o Corriere dei Piccoli, che spesso dedicavano pagine sulle ultime imprese dello spazio. E non era per nulla strano trovare dentro le merendine che ti portavi a scuola una figurina con l’immagine di una Mercury sulla rampa di lancio o di Valentina Tereskova col volto stretto dentro il casco. Così, giocare agli astronauti non era cosa rara. Io e mio fratello ci mettevamo a rovescio sulle poltrone, con la schiena sulla seduta e le gambe alzate a 90 gradi appoggiate allo schienale, ed eravamo immediatamente dentro la cabina di una navicella spaziale, circondati da pulsanti, leve, lucette. “Houston chiama Apollo, Houston chiama Apollo” … “Qui Apollo, ti sento forte e chiaro” … “Prepararsi all’allunaggio, Apollo, accendete i razzi di frenata” … “Houston! Houston! C’è un problema!” … “Che succede?” … “I razzi non si accendono!” … “Accidenti Apollo! Questa non ci voleva! Azionare i razzi di emergenza!” … “Fatto!” … “Coraggio, ragazzi, tenetevi forte! L’impatto non sarà leggero!” … Chiaramente, finiva sempre con una tragedia e con la straziante morte di un eroico astronauta (quasi sempre io) nell’infinità del cosmo.
D’altra parte, eravamo circondati dalle imprese spaziali: ogni minima novità trovava ampio risalto in tv come nelle prime pagine dei giornali che mio padre portava a casa la sera, di ritorno dal lavoro. E l’attenzione mediatica diventava sempre più martellante man mano che ci si avvicinava all’evento. Io chiaramente (avevo 10 anni) non mi rendevo conto che in ballo c’era il destino della guerra fredda, la possibilità per gli americani di una svolta (stile Midway) dopo anni di “bastonate” da parte dei sovietici, e assorbivo acriticamente il messaggio ufficiale, quello di stare “lottando” per una conquista epocale dell’umanità tutta. Solo parecchio tempo dopo ho capito perché fui indotto a impressionarmi più dell’Apollo 8 che dell’Apollo 11, perché fu nel dicembre del ’68 (e non nel luglio del ’69) che il mondo occidentale percepì di essere finalmente in testa nella corsa e che occorreva solo aspettare per veder tagliato il traguardo della svolta. Insomma, la riscossa era iniziata. Ma io non ne sapevo nulla e dell’Apollo 8 non mi colpì tanto il fatto che degli esseri umani avevano per la prima volta raggiunto la Luna quanto il pensiero di quegli interminabili minuti passati dietro la faccia oscura del satellite, staccati da ogni comunicazione, sospesi nel nulla, con davanti agli occhi meraviglie che nessun altro aveva mai visto (così vendettero l’impresa. In realtà i sovietici, grazie a una sonda, avevano già riempito di foto quell’emisfero).
I mesi che precedettero lo sbarco furono un crescendo d’aspettativa, scanditi dai voli “di prova” delle Apollo 9 e 10. A me, quelli, appassionarono poco. Ma non scorderò mai l’enorme regalo che, finito l’anno scolastico, i miei genitori ci fecero per la nostra promozione: un grande modellino dell’Apollo 11, completo di razzo vettore a tre stadi Saturn V e di modulo lunare Lem. C’era addirittura il diorama di un cratere lunare dove andava adagiato quella sorta di ragno di plastica, a simulare l’allunaggio. Provavo davanti a quel modellino la stessa adorazione di un credente davanti alla Sindone: lo accarezzavo con gli occhi, studiandone ogni particolare e tremavo, nel prenderlo in mano, per la paura che mi cadesse e si rompesse. Mio fratello (più grande di me) lo maneggiava con sicurezza e mi illustrava i dettagli della missione: ne conosceva a menadito ogni fase e sapeva tutto del modulo di comando, del modulo lunare, di come si sarebbero staccati e riattaccati… A me dispiaceva soprattutto per Collins, costretto a restare a bordo del Columbia, mentre Armstrong e Aldrin, dentro l’Eagle, sarebbero scesi sulla Luna a prendersi tutta la gloria. Non lo trovavo giusto.
Alla fine, l’evento tanto atteso e preparato a puntino, arrivò. Io ero emozionato non perché l’uomo avrebbe toccato il suolo lunare (io l’avevo già fatto milioni di volte…) ma perché per seguire l’evento la Rai avrebbe fatto una non stop televisiva di quasi due giorni. Questo era il vero evento!
Per chi a quel tempo non c’era, è meglio ricordare che alla fine degli anni ’60 i programmi televisivi cominciavano attorno alle cinque del pomeriggio, e terminavano poco dopo le undici di sera. Prima e dopo c’era il nulla (o meglio, il monoscopio). Per noi bambini, poi, l’orario si restringeva dalle 17,45 alle 18,45 quando c’era La tv dei ragazzi, con i cartoni ungheresi e jugoslavi (indimenticabili Signor Gustavo e Professor Balthazar), con qualche ottimo sceneggiato (come il mitico Robinson Crusoe) e meravigliosi programmi didattici. Tra questi, ce n’è uno al cui ricordo sono ancora percorso da brividi di nostalgia, soprattutto per le sigle che lo aprivano e chiudevano: si chiamava Avventura e iniziava con un brano di Joe Cocker (“She came in through the bathroom window”) per terminare con uno dei Procol Harum (“A salty dog”). Fu guardando quel programma che capii come al mondo non ci fossero solo le canzoni dello Zecchino d’oro o di San Remo, ma “altra” musica, che ti entrava dritta fin dentro lo stomaco.
La tv, insomma, era solo una minima parte della nostra giornata e fu con lo sbarco sulla Luna che per la prima volta capimmo che presto sarebbe diventata lei la padrona della nostra vita.
La diretta del secolo, come la definirono i giornali dell’epoca, iniziò alle ore 19,30 di domenica 20 luglio per concludersi poco prima della mezzanotte di lunedì 21 luglio. Ricordo il grande studio stracolmo di giornalisti e pubblico, la visibile apprensione (non so se reale o un po’ recitata) dei commentatori, tutti rigorosamente in bianco e nero. A me poco interessavano queste cose, e neanche provai granché vedendo le prime immagini riprese dal Lem che stava per allunare o il celebre siparietto tra Tito Stagno e Ruggero Orlando quando, circa a metà serata, non s’intesero sul momento in cui l’Eagle aveva toccato il suolo. La mia vera “emozione” fu il pensiero di stare sulla poltrona sveglio tutta la notte (mai fatto prima!), con mamma che ogni tanto ci portava da mangiare e babbo che rideva ad ogni strafalcione dei giornalisti. E la mia trepidazione era attendere non tanto la discesa degli astronauti sulla Luna, ma gli eventi collaterali. Perché per riempire i “buchi” della lunga diretta la Rai aveva allestito un palinsesto fatto di meravigliosi cartoni (incredibile: tutti americani…) e film di fantascienza. Erano tutti vecchi lungometraggi, precedenti alla rivoluzione di “2001 odissea nello spazio” (che era uscito da poco e ancora circolava nei cinema). Insomma, tutti film a base di alieni verdi che invadevano la terra. Ma fu in quest’occasione che vidi per la prima volta “Il pianeta proibito” e sono convinto fu allora che scoccò in me quella scintilla d’amore per la letteratura di fantascienza che avrebbe poi accompagnato tutta la mia adolescenza.
Il cimento personale di stare sveglio tutta la notte, fallì. Poco dopo le due mi addormentai, e fu mio fratello a svegliarmi, credo fossero quasi le cinque del mattino. “Apri gli occhi, stanno scendendo!”. Misi a fuoco la vista sull’immagine imbrogliata di un piede bianco che scendeva i pioli di una scaletta. Giunto a pochi centimetri dal suolo, esitò. “E se sprofonda e viene inghiottito dalle sabbie mobili?” dissi. Mia madre: “Oh mio Dio!”. Mio padre: “Non è da escludere…”. Poi l’astronauta spiccò quel famoso saltino e tutto il mondo pensò che la storia, iniziata con uno scimmione che scendeva da un albero, fosse finita e stesse cominciando un’epoca completamente nuova.
Non era vero. Non è cambiato quasi nulla. L’umanità ha continuato a massacrarsi in Vietnam e poi in Cile, in Medio Oriente, in Argentina, in Africa, nell’ex Jugoslavia, nel Golfo, in Afghanistan. La gente ha continuato a litigare per soldi e per sesso, a truffare, a estorcere, a credere nelle lacrime di una statua, a sperare di cambiare vita con il superenalotto, a morire di fame, a soffrire per violenze e torture, per reati d’opinione. I politici hanno raccontato frottole sempre più grandi. Il mondo è diventato sempre più inquinato. E le imprese spaziali hanno smesso di interessare. Nei giornali sono retrocesse di pagina in pagina, fin quasi a scomparire. Al punto che qualcuno ha anche posto in dubbio che quello sbarco fosse vero, che fosse solo una colossale bufala messa in piedi dagli americani pur di battere i sovietici.
Io non credo fosse una bufala. Ma l’amaro in bocca rimane. Peccato. Quel piccolo passo per un uomo è rimasto piccolo.