Una settimana al Ravenna Festival. Una piccola invettiva, a partire dal Leone d’Oro a Alessandro Sciarroni

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Il Giardino Armonico - foto di Zani-Casadio

 

«Ringrazio in particolare tutti quegli artisti i quali hanno capito quanto fosse necessario uscire dai confini della propria disciplina per raccontare la complessità della contemporaneità»: un frammento del discorso di ringraziamento di Alessandro Sciarroni, pronunciato a Venezia alla cerimonia di consegna del Leone d’Oro alla carriera alla Biennale Danza 2019, può essere utile a introdurre il nostro piccolo discorso su uno dei molti paradossi che attraversano la scena performativa contemporanea, in una temperie che l’attuale direzione artistica di Santarcangelo Festival ha sintetizzato con l’efficace formula di «post-disciplinare» (in una densa intervista di presentazione del Festival 2019 che chi vuole può leggere qui).

Il non addetto ai lavori che si affacciasse per un attimo su tale blasonato panorama ne avrebbe, quanto meno, la percezione di un’attitudine aperta, accogliente, ibrida.

E invece: un autodistruttivo, miope narcisismo (per il quale si pone attenzione solamente a ciò che direttamente, e da molto vicino, rimanda una chiara immagine di sé) domina la quasi totalità di coloro che, con diverse funzioni, abitano l’odierno sistema delle arti.

Ne abbiamo avuto riprova durante l’ultima, straordinaria settimana al Ravenna Festival, durante la quale abbiamo incontrato quattro forme diversissime fra loro (torna l’«aperto» del claim 2019), ciascuna a suo modo espressione di un sapere e di una tradizione altissimi.

Crediamo utile dar conto (seppur brevemente) di queste proposizioni là dove esse eccedono il confine della disciplina a cui appartengono “di diritto”: questo sia perché riteniamo ridondante aggiungere parole a commento del percorso di artisti solidamente storicizzati (o comunque conclamati), sia perché la feconda, nutriente molteplicità di riferimenti e mondi di cui si fanno portatori si è rispecchiata ancora una volta nell’annichilente assenza di pubblici e addetti ai lavori non afferenti all’una o all’altra specifica disciplina. Nel loro assordante silenzio.

 

The Tallis Scholars alla Basilica di San Vitale – foto di Luca Concas

 

Domenica 16 giugno The Tallis Scholars, il complesso vocale di musica polifonica più celebre al mondo, ha proposto un percorso di sette concerti nelle Basiliche della città.

Da noi ascoltati per la prima volta, sempre grazie al Ravenna Festival, tre anni or sono (qui il racconto del nostro primo incontro con la «cosa più vicina a una esperienza extraterrestre che potete provare seduti in una sala da concerti», come scrisse The Observer), nel 2019 hanno dato voce, letteralmente, alla Liturgia delle ore, «uno dei riti musicali più antichi e una delle esperienze più spiritualmente ed esteticamente significative del mondo occidentale, per secoli tratto distintivo della vita monastica (ma non solo)».

Dei sette concerti in programma, siamo riusciti a seguire gli ultimi due: l’ufficio dei Vespri, nella Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, e il Compieta, nella Basilica di San Vitale.

Il canto piano è stato affidato al Coro da camera 1685 che, almeno nei due momenti a cui abbiamo partecipato, lo ha eseguito lontano dalla vista della platea, celato da drappeggi e architetture: un’esperienza puramente acustica di incontro con una vocalità (dis)incarnata che fa pensare al Vuoto praticato da Yves Klein oltre sessant’anni fa.

«Iris Clert vi invita ad onorare, con tutta la vostra Presenza emotiva, l’avvento lucido e positivo d’un indubitabile regno del sensibile» si leggeva nell’invito alla celebre performance parigina del 28 aprile 1958 «Questa manifestazione di sintesi percettiva sancisce con Yves Klein la ricerca pittorica d’un emozione estatica ed immediatamente comunicabile»: sintesi perfettamente pertinente anche della proposizione ravvenate alla quale, almeno per quanto abbiamo potuto verificare, si è registrata la pressoché totale assenza di professionisti di altre arti.

Come se i Tallis Scholars non avessero nulla da insegnare a chi si occupa di vocalità in scena. Come se il loro amplificare la percezione dell’ascoltatore (per cui il minimo ticchettio del ventaglio della signora seduta di fianco a noi diventa un rumore assordante e insopportabile) non fosse esperienza estetica che riguarda chiunque si aspetti che altri umani dedichino loro attenzione.

Per parte nostra, siamo stati ancora una volta grati per il Theatrum Mundi che abbiamo avuto la possibilità di sbirciare.

Per la rondine svolazzante sulle nostre teste a Sant’Apollinare Nuovo: echi pasoliniani, natura e cultura, guizzo e struttura.

Per la commozione che ci ha pervaso, un po’ come all’inizio di Parla con lei di Pedro Almodóvar, quando i Tallis Scholars in San Vitale (uno dei posti più belli dell’universo mondo) hanno eseguito Nunc dimittis di Arvo Pärt: al di là di ogni narrazione, contenuto, rispecchiamento autobiografico, commozione della (e per la) pura forma.

 

Martha Graham Dance Company – foto di Zani-Casadio

 

Lunedì 17 giugno abbiamo assistito a uno spettacolo della Martha Graham Dance Company.

Delle cinque coreografie presentate, che hanno costituito una summa dei proteiformi modi / mondi attraversati dalla coreografa americana, quello che forse più di tutti ha incarnato l’annosa questione dell’eredità, dunque della trascendenza, nell’arte coreutica è stato Lamentation Variations: «Ideato come evento per l’anniversario dell’11 settembre, Lamentation Variations debutta in quella data nel 2007» si legge nel ricco programma di sala «Pensate e costruite in condizioni creative specifiche, le Variazioni si aprono con un filmato dei primi anni Quaranta in cui la stessa Graham danza l’allora nuovissimo e ormai iconico assolo Lamentation. Ai tre autori di oggi si è chiesto di creare coreografie spontanee in reazione al filmato della Graham, attenendosi alle seguenti regole: 10 ore di prove, musica non originale o silenzio, costumi e luci ridotti al minimo. Pur se pensato per quell’unica rappresentazione, il successo fu tale da proiettare a buon diritto la pièce nel repertorio permanente della Compagnia».

Lamentation, sia detto per i non addetti ai lavori, è un assolo del 1930 della durata di quattro minuti in cui un’interprete seduta su un basso panchetto e avvolta in un tubo di stoffa elastica propone un movimento brusco e spigoloso, antisentimentale e antigrazioso. Non racconta una storia, manifesta linee: attraverso di esse rende visibile il dolore.

Uomini e donne di teatro, soprattutto in un’epoca che a causa delle precarie condizioni produttive vede il proliferare di monologhi con scenografia inesistente (per non parlare dell’ormai trito stilema del narratore su una sedia) non avrebbero nulla da imparare, qui?

Esponenti delle (e appassionati alle) arti visive non avrebbero nulla da guardare, relativamente alla composizione di linee e volumi, di pieni e vuoti della quale Graham è stata maestra assoluta?

Chiunque si occupi del corpo in una condizione di rappresentazione non trarrebbe giovamento da tali proteiformi esempi di contraction e release, allungamenti e opposizioni, figure classicheggianti e frammenti astratti e, soprattutto, di un movimento che origina (e in alcuni casi si compie) all’interno della struttura somatica con una precisione e una chiarezza, a tratti, da manuale di anatomia?

 

Il Giardino Armonico – foto di Zani-Casadio

 

A proposito: del concerto de Il Giardino Armonico (con Katia e Marielle Labèque al fortepiano) ascoltato e visto mercoledì 19 giugno, nella prospettiva assunta da queste poche righe crediamo utile ricordare almeno due elementi.

Il primo: fin dall’ ouverture de L’isola disabitata di  Franz Joseph Haydn, che ha aperto la serata, il direttore Giovanni Antonini ha dato prova di un rapporto fisico con la musica così materico e plastico da far impallidire la maggior parte dei danzatori e delle danzatrici che calcano le nostre scene.

Mediante bruschi e al contempo precisissimi segni di busto, braccia, polsi, mani e dita, Antonini dà attacchi, guida intensità e colori. Ma, soprattutto, plasma la materia sonora, facendola percepire fisicamente alla platea per quale essa è: materia, appunto.

Corpo fisico e corpo sonoro, in un dialogo struggente e carnoso, lirico e feroce.

Come non pensare a Kazuo Ōno?

Tralasciando l’analisi musicale della partitura e della vibrante esecuzione che ne ha dato l’ensemble da lui diretto, così come il suo sterminato curriculum, vedere Antonini in scena è stato un esempio a nostro avviso altissimo di arte: coreutica, oltre che musicale, appunto.

Danzatori in sala: nessuno.

Il concerto si è chiuso con la celeberrima Sinfonia degli addii di Haydn nel cui ultimo movimento, com’è noto, gli orchestrali uno alla volta escono dalla sala. Forse non tutti ricordano che il compositore la creò come forma di protesta per le condizioni di lavoro a cui gli strumentisti suoi collaboratori erano assoggettati, nella residenza estiva in cui il principe Nikolaus, loro “datore di lavoro”, li obbligava. La vicenda è piuttosto lunga e articolata, impossibile da riportare qui. Ma persone interessate alla storia, o ai diritti civili, avrebbero certo beneficiato di un tale ascolto, tematicamente affine ma linguisticamente, vivaddio, altro.

 

Enzo Avitabile – foto di Luca Concas

 

Infine: venerdì 21 giugno nel parco di Palazzo San Giacomo, a Russi, abbiamo assistito al “concertone” di Enzo Avitabile, con ospiti Francesco De Gregori, Tony Esposito e i Bottari di Portico.

Circa tremila persone sedute sul prato, stand con cibo e vino, Avitabile impegnato in un’ininterrotta opera di coinvolgimento del pubblico, chiamato a battere le mani e a ripetere parole, sillabe e vocalizzi, su un energico tappeto di percussioni e fiati, in un’ibridazione di italiano, dialetti del sud e lingue africane.

Non abbiamo molto apprezzato né l’un po’ predicatorio indulgere sulla tematica interculturale / di accoglienza, ancorché ovviamente ci trovi d’accordo, né l’esecuzione del Nostro (se si tratta di acrobazie vocaliche Bobby McFerrin, ad esempio, è davvero un’altra cosa), né l’insistita enfasi davvero troppo sentimentale che ha colorato ogni momento dell’esibizione, come fosse un concerto fatto tutto di bis.

Ma, al di là del nostro gusto personale, le dinamiche di relazione attivate sono state certo efficaci e degne di attenzione.

Come non pensare al teatro rasico? Ai mille progetti di Audience Engagement?  All’orizzonte popolare e comunitario sbandierato da tanti uomini e donne di scena?

Studiosi e professionisti delle arti performative seduti fra l’erba: nessuno, o quasi.

 

The Tallis Scholars a Sant’Apollinare Nuovo – foto di Luca Concas

 

Gli studi sulla ricezione, com’è noto, interrogano i modi in cui le comunità (di spettatori, addetti ai lavori, critici, …) influenzano, creano, modificano l’identità degli oggetti culturali.

Ciò dice qualcosa, come abbiamo provato a fare in queste righe, in parte sugli oggetti culturali stessi, in parte sulle comunità che li incontrano (un caso emblematico, di cui tutti abbiamo memoria: la fatwa contro Rushdie, quando ormai trentun anni or sono vennero pubblicati i suoi Versi Satanici, raccontò qualcosa sulla società di allora, non solo e non tanto sul libro).

L’augurio (l’utopia) è che il comune frequentare le arti sia stimolo e esercizio di apertura, non solamente ennesima occasione per erigere steccati, a delimitare territori sempre più stretti, asfittici, mortiferi.

Chissà se ne saremo mai capaci.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: ravennafestival.org