Brevi considerazioni su due spettacoli presentati nella prima Stagione del Teatro Diego Fabbri interamente gestita da Accademia Perduta. Che ha proposto, in collaborazione con Città di Ebla / Ipercorpo 2019, anche una Stagione di Contemporaneo intitolata un altro teatro.
Questione di prospettive.
Meglio: di referenti.
A chi è indirizzata la programmazione di un altro teatro? Chi sono gli spettatori a cui ci si rivolge?
Se il destinatario fosse l’assiduo frequentatore della scena contemporanea si potrebbe forse sollevare qualche perplessità rispetto alla scelta di nomi che, nel minuscolo mondo di chi si intende di queste cose, sono -con ben diverse consistenze- conclamati, garanzia di apprezzamento, quasi “classici contemporanei”. Un po’ ovvi, insomma. Un po’ come premiare sempre gli stessi artisti (pratica invero diffusissima). Laddove, forse, uno dei compiti di una Stagione altra dovrebbe essere anche quello di assumersi qualche rischio in più.
Se il referente, al contrario, fosse ”il grande pubblico” (espressione impropria, giacché “il grande pubblico” davvero si interessa a tutt’altro), la scelta di offrire un sintetico ma ben riconoscibile e riconosciuto condensato di modi e forme di diversa storicità e proteiforme spessore che la pratica di lavoro della scena contemporanea offre oggidì è senza alcun dubbio appropriata. Una lungimirante occasione di avvicinamento, per gradi, a ciò che per la stragrande maggioranza dei cittadini resta poco più che un’oscura astruseria.
Ciascuno la veda come preferisce: non sta a noi giudicare.
Fatto questo (forse inutile) preambolo, desideriamo concentrare la nostra attenzione sui due spettacoli incontrati nell’ambito di un altro teatro: Frame per la regia di Alessandro Serra (co-produzione Teatro Koreja e Compagnia Teatropersona) e Bello Mondo di e con Mariangela Gualtieri, cofondatrice assieme a Cesare Ronconi del Teatro Valdoca di Cesena.
Entrambi connotati da esatto minimalismo, ma con temperature emotive affatto opposte.
Sia chiaro: ben lontani dalla concezione propriamente romantica di arte come espressione e veicolo di emozioni, secondo la quale un’opera “commovente” è in qualche modo migliore di una che non lo è, cercheremo di notare come si è manifestato questo scarto, nei suddetti lavori.
Frame compone lacerti di quotidianità aumentata e stilizzata (segno di apertura: il rumore amplificato di unghie che grattano su una parete) in una scena mobile (come non pensare agli storici Screen di Gordon Craig?), che respira al ritmo di asciutti cambi luce, in un concatenarsi di micro-sorprese (su tutte: reiterate sequenze di apparizioni e sparizioni degli attori dietro a pannelli), articolando una linea di minimali epifanie evocanti una sorta di teatro barocco, inteso come “macchina della meraviglia”, asciugato e corretto secondo lo stile del suo autore.
Di Serra, anni fa, apprezzammo enormemente un allestimento della fiaba di Hansel e Gretel realizzato da e con un gruppo di indimenticabili attori diversamente abili (chi fosse curioso può leggere qui la nostra recensione di allora).
In quel caso il sistema di segni elaborato dal regista era “scaldato” dalla potente umanità degli interpreti.
In Frame la partitura di azioni mute, atta a giustapporre scene astratte a micro narrazioni (o situazioni comunque riconoscibili), è eseguita da un gruppo di interpreti la cui consistenza scenica non risulta del tutto chiara, in una medietà che potrebbe forse essere superata da una più netta esattezza (giacché questo è il piano sul quale Frame instaura la propria possibilità di dialogo con il pubblico) a livello corporeo, ad esempio nei disequilibri, nelle tensioni interne tra busto e arti, negli stop, nella gestione di pesi e contrappesi, nonché nella prossemica della composizione coreografica.
Usiamo questo termine mutuandolo dal lessico coreutico perché, ci sembra, Frame si gioverebbe di danzatori, o danzattori, per far fiorire quello che altrimenti può risultare un (un po’) esangue esercizio di stile.
Di segno opposto dal punto di vista della “risonanza emotiva” (ribadiamo: non per questo, in sé, migliore) è Bello Mondo di e con Mariangela Gualtieri.
La poeta cesenate (ad oggi definitivamente riconosciuta, per quanto l’arte che lei frequenta lo permetta, dai molti) ha proposto l’ormai consolidata sequenza di testi, in una rigorosa lettura al microfono.
In Bello Mondo si enfatizzano alcune tematiche nelle quali il pubblico si può riconoscere (la lunga storia d’amore, la madre morente, …) con musiche in modo minore o brevi frasi autobiografiche. Ma, crediamo di poter sintetizzare, ciò che rende efficace dal punto di vista della comunicazione lo spettacolo non sono tanto questi espedienti, quanto la coesa esattezza dell’insieme.
Alcuni termini finora usati (risonanza emotiva, comunicazione) possono risultare scivolosamente ampi e soggettivi.
Giacché la poesia, come la musica, è anche metrica e misura (è la forma, appunto, che distingue una nostra poesiola adolescenziale da un sonetto di Petrarca, non l’intensità dell’eventuale sentimento che l’ha originata), per esplicitare con più chiarezza il nostro pensiero ci rivolgiamo per un attimo agli scritti di un energico filosofo della musica americano, Peter Kivy, che nel 2002 dedicò alcune pagine alla questione delle emozioni nella musica: «Quando dico che un passaggio musicale è allegro o melanconico, posso argomentare la mia affermazione indicando altre caratteristiche della musica in virtù delle quali la musica è allegra o melanconica. L’allegria della musica è una nuova qualità prodotta dalla forza combinata della tonalità maggiore, del tempo rapido e saltellante, della forte dinamica, dei temi vivaci e galoppanti. Chiamare qualità complesse le qualità emotive della musica enfatizza il fatto che un passaggio musicale è allegro, malinconico, o che altro, a causa di altre caratteristiche musicali che lo rendono così. Chiamarle qualità emergenti enfatizza il fatto che esse sono percepite come qualità distinte, qualità per diritto proprio separate dalle qualità che possono produrle. In altre parole, sembra esserci una diretta analogia tra l’aspetto e i suoni delle persone quando esprimono le emozioni comuni e il modo in cui la musica suona o è descritta quando è percepita come espressiva di quelle stesse emozioni».
Al di là delle proiezioni individuali e dei nomi dati alle cose, dunque, ciò che fa muovere con la musica (dunque, etimologicamente, ciò che commuove di essa) sembrano essere, propriamente, le sue qualità formali: altezza, intensità, timbro, e così via.
È un modo di intendere il fatto musicale (e poetico, e teatrale, per estensione: artistico) che mette l’accento più sulla struttura che sull’espressione, o meglio è una concezione che considera la struttura come un a priori logico che rende possibile l’espressione / comunicazione delle emozioni: la commozione della forma, si potrebbe sintetizzare.
Ribadendo per la terza e ultima volta l’idea per cui il fatto che una proposizione scenica risulti commovente per i molti non la rende in alcun modo in sé più apprezzabile (altrimenti le composizioni di Nino D’Angelo avrebbero in sé più valore di quelle di Karlheinz Stockhausen?), desideriamo ricondurre quanto detto a un elemento affatto pratico: il mestiere della scena. Se è vero, come ci insegna l’antica cultura greca nella quale anche terminologicamente le funzioni artistiche e artigianali coincidevano, che l’arte è innanzitutto un mestiere, e che i mestieri li si impara praticandoli, il fatto che Gualtieri negli ultimi anni abbia conquistato una notorietà e un apprezzamento tali da far aumentare esponenzialmente le occasioni di lettura pubblica delle sue poesie ha certo contribuito ad affinare tempi e modi di questo dialogo tra chi dice e chi ascolta.
Questione di pratica quotidiana, pare di poter sintetizzare anche riprendendo il sottotitolo dell’edizione 2019 del Festival Ipercorpo, che fra pochi giorni entra nel vivo.
MICHELE PASCARELLA
Frame e Bello Mondo, visti al Teatro Diego Fabbri di Forlì rispettivamente il 30 aprile e il 21 maggio 2019 – info: accademiaperduta.it, cittadiebla.com