Brevi note su diversissimi modi di raccontare il presente che stiamo attraversando.
«Sembra vero!»: una concezione (di origine almeno settecentesca) di bello come imitazione della natura, secondo la quale la maggior vicinanza possibile della riproduzione al modello di riferimento è indice di artisticità («che bravo quel pittore, ha dipinto un albero che sembra vero!») pare sottendere i giudizi che, più o meno consapevolmente, molti di noi emettono quando si imbattono, più o meno fortuitamente, in «ciò che gli uomini chiamano arte».
Tre opere incontrate nelle ultime settimane ci sembrano ora utili, grazie alla notevole difformità linguistica e di contenuto di cui sono portatrici, ad accompagnare qualche pensiero attorno a quell’attitudine che fa, ad esempio, comunemente apprezzare maggiormente un’opera se «è tratta da una storia vera».
Ovviamente non indugeremo sulle molte possibili interpretazioni filosofiche e psicologiche (almeno da Descartes a Freud) di un termine scivolosamente opinabile (quasi quanto «bello»): «realtà».
Ai fini del nostro piccolo discorso riterremo valida l’accezione comune di «qualcosa di percepibile, non frutto dell’invenzione».
In questo senso le opere di Occhisulmondo (Un principe) e de Il Mulino di Amleto (Platonov) potrebbero in tutta evidenza contrapporsi a Granma di Rimini Protokoll: se la performance del premiatissimo ensemble tedesco assume come fonte testuale e scenica le biografie degli avi delle persone in scena a sessant’anni dalla rivoluzione cubana, i primi due titoli hanno origine dichiaratamente letteraria (rispettivamente Shakespeare e Cechov).
Stefan Kaegi in Granma applica uno sguardo da «storico immediato del reale» che si basa (non a caso si è usato il termine performer e non attore, poche righe fa) sulla sospensione del principio di finzione e l’acquisizione (Pasolini docet) del mondo così com’è: facce e corpi, biografie e cose.
Mediante un sapiente intreccio di partiture musicali e narrative, di Storia e storie, nonché di una composita relazione palco-platea, Granma (di)mostra come l’informazione non sia, per l’artista della scena, un linguaggio incompatibile all’esercizio dell’inventiva ma al contrario, per dirla con lo storico del teatro Gerardo Guccini, «uno stimolo ad individuare veicoli linguistici che possano trasformare i dati acquisiti in esperienza conoscitiva».
In opposta direzione, sintattica e dunque poetica, sta l’Amleto diretto da Massimiliano Burini di Occhisulmondo, nel quale le Figure in scena fanno dell’esplicita finzione la lente attraverso cui guardare (e far guardare) il brulicante affaccendarsi degli umani. Costumi e incarnati a campiture monocrome, estrema stilizzazione degli schemi prossemici e delle partiture gestuali e vocaliche, a comporre quadri che fanno del qui e ora, dato comune a tutta l’arte performativa, il reale cui aggrapparsi, in cui ri-conoscersi.
Detto altrimenti: la Compagnia umbra propone una macchina teatrale di stampo espressionista, evidente in tutta la propria consistenza finzionale, che produce esattissime immagini create e giustapposte non in quanto belle, ma perché portatrici di proteiforme potenziale semantico. Immagini che restano intraducibili in un linguaggio diverso da quello della scena che abitano e che le ha generate. Che si pongono come enigmi, di inesauribili interrogativi.
Se il dispositivo scenico di Rimini Protokoll si rivolge alle conoscenze e all’emotività del pubblico, il magnetico Un principe evoca nello spettatore qualcosa di altro: seppur non pienamente nominabile, non per questo meno reale.
In mezzo a queste polarità è forse appropriato collocare il Platonov interpretato da Il Mulino di Amleto, che a partire dall’esplicita finzione degli aloni di sudore sotto le ascelle creati spruzzandosi acqua in proscenio giunge a passaggi di stampo naturalistico in cui «l’attore rappresenta il proprio personaggio e finge di non sapere di essere un attore», per stare con il celeberrimo Dizionario del teatro di Patrice Pavis.
Pare di poter affermare che il trait d’union tra questi sistemi di significazione, e soprattutto il loro rapporto con la realtà, possa risiedere non tanto nel tentativo di cancellare la convenzione teatrale (si legga: rappresentativa) e le sue forme (testo, attore, scena), ma in quello di scardinarne “dall’interno” gli elementi costitutivi.
Carmelo Bene parlava, in tal senso, di «discrittura scenica», sostituendo alla pratica del mettere in scena quella del «togliere di scena».
È dunque al realissimo sdoppiamento (frammentazione), spaesamento (delocazione), struggimento (afflizione) di noi uomini e donne contemporanei che si rivolge questo Platonov. Che non a caso recita, nel sottotitolo: «un modo come un altro per dire che la felicità è altrove».
Per fare un prato occorrono un trifoglio e un’ape,
Un trifoglio e un’ape
E il sogno.
Il sogno può bastare
Se le api sono poche.
Emily Dickinson
MICHELE PASCARELLA
Un principe, visto al Teatro Testori di Forlì il 26 marzo 2019 – info: http://www.occhisulmondo.org/, https://www.teatrotestori.it/
Platonov, visto al Teatro Testori di Forlì il 10 aprile 2019 – info: http://www.ilmulinodiamleto.com/, https://www.teatrotestori.it/
Granma, visto all’Arena del Sole di Bologna l’11 aprile 2019 – info: https://www.rimini-protokoll.de/, http://emiliaromagnateatro.com/