Buio. Un faro illumina un palco fondamentalmente vuoto sopra al quale si aggira una figura: la camicia fuori dai pantaloni, la cravatta allentata, la giacca in mano e nell’altra un fazzoletto che si passa sui capelli appiccicati alla nuca. La temperatura dentro al teatro è normale eppure non puoi fare a meno di percepire quel caldo infernale della metropoli, con i raggi del sole che si imbattono contro i grattacieli in costruzione. E anche quella Roma di cui parla i personaggio non c’è, ma non si può fare a meno di vederla.
Ragazzi di vita è uno spettacolo estremamente visuale: il fiume di parole del monologo di Lino Guanciale che apre lo spettacolo serve proprio a questo, a far spalancare le porte dell’immaginazione dello spettatore. Come ha affermato lo stesso attore all’incontro con gli spettatori, si tratta di costruire attraverso l’immaginazione il paesaggio evocato dalla parole. L’obiettivo è quello di cercare di restituire la Roma che Pasolini ha vissuto e amato, quella del boom economico che sta vivendo il suo ultimo slancio vitale prima della lunga e lenta morte; una Roma delle borgate e della poesia. Il caldo, protagonista del monologo iniziale, è un caldo fisico ma anche metaforico: è qualcosa che trasfigura le immagini, che esalta gli odori, che rende faticoso persino respirare
Il narratore segue i passi dei suoi personaggi, li porta sulla scena e li fa uscire, interagisce con loro, un po’ li giudica, un po’ li compatisce, nel senso che patisce insieme a loro. Testimone, messaggero, lettore: così ha descritto il suo personaggio Guanciale, e non potrebbero esserci parole più azzeccate. In questo suo lavoro, il personaggio da lui interpretato si fa specchio dell’autore, incarnando lo stesso procedimento linguistico che ha portato Pasolini a immergersi all’interno di questa Roma sporcando la sua scrittura aulica con il romanesco. Lo stesso Guanciale ha definito il suo personaggio non solo testimone, ma vero e proprio ladro di vita altrui.
In tutto questo, lo spettatore ha la sensazione di vivere dentro quella Roma e quei personaggi e allora stesso tempo di non esserci mai dentro del tutto, grazie a una recitazione che passa dalla prima alla terza persona, con la quale i protagonisti in parte interpretano sé stessi e in parte raccontano sé stessi, assumendo così le sembianze di personaggi che forse non esistono più se non nel ricordo di qualcuno che li ha raccontati, se non nella penna di uno scrittore che li ha creati. La lingua del racconto, nel suo scivolare continuo nel romanesco dialettale, e l’utilizzo delle canzoni di Claudio Villa, aiutano l’entrata in questo mondo, così che lo spettatore si trova sospeso a metà strada tra dentro e fuori, tra testimone interno ed esterno, tra personaggio e lettore.
La struttura narrativa, così divisa per schetch, non riprende la vera e propria linea drammaturgica, eppure non manca di un crescendo di calore, quando le nuvole formano una cappa sopra la grande città, di comicità, grazie ad alcuni personaggi in particolare come il proprietario del bagno al mare o l’omosessuale, di miseria, fino a raggiungere un picco di tragicità finale, con quel corpo morto steso a terra al centro del palco e sulla sinistra quel ragazzo che continua a urlare il nome di suo fratello.
Spettacolo di “Ragazzi di vita” di Massimo Popolizio visto al Teatro Alighieri di Ravenna, domenica 3 marzo