Brevi note per azzardare un trait d’union fra una minuscola mostra sul gigantesco Robert Rauschenberg e la magnificenza mozzafiato della Fondazione Prada.
«Non c’è alcun dubbio che Rauschenberg possieda le tecniche. Però quelle che ha le usa poco, e invece usa quelle che non ha»: un illuminante frammento del celebre scritto di John Cage sull’amico e collega Robert Rauschenberg pare perfetto per introdurre il breve racconto di una fugace visita a Milano, metropoli dai mille stimoli approcciata con lo stupore e l’ingenuità del contadino Artemio – Renato Pozzetto nel popolare film Il ragazzo di campagna del 1984.
Due giorni nei quali abbiamo avuto l’occasione di incontrare altrettanti discorsi sull’arte contemporanea, certamente antitetici per dimensioni e mezzi a disposizione ma forse accomunabili da un’analoga tensione, pienamente contemporanea, a superare la centralità della tecnica (la perizia che, secondo un’idea che origina nell’Antica Grecia, distingue l’artista dal non artista), a favore di una funzione dell’arte come esperienza propriamente estetica (termine che, ancora una volta, va inteso come opposto di anestetica, non di inestetica).
In tal senso i non addetti ai lavori potrebbero rimanere un po’ sconcertati entrando nelle due piccole e luminose sale della Galleria Conceptual che, fino al 17 marzo, ospitano una manciata di opere degli anni Settanta dell’esponente del New Dada: dai meno noti lavori in corda, fango, paglia e terracotta (inusuale scelta di materiali, per l’artista americano, che potrebbe ricordare certi stilemi dell’Arte Povera) ad opere che riflettono il Rauschenberg più conosciuto, con collage di immagini già fatte, campiture monocrome e materiche stratificazioni.
La più recente esposizione dello spazio guidato con pervicace entusiasmo da Roberto Pezzotti (che negli anni ha proposto, fra le altre, personali dedicate al lavoro di Urs Lüthi, Getulio Alviani, Luigi Ghirri, Bruno Munari e Giorgio Griffa) dà corpo a un’idea di bellezza affatto lontana dalla concezione settecentesca di «imitazione della natura», lasciando spazio alla cruda presentazione di materiali e frammenti propriamente pop il cui assemblaggio è teso, si può forse sintetizzare, a risignificare il reale, più che a rappresentarlo.
Un’analoga tensione è leggibile in alcune opere della mostra temporanea Sanguine. Luc Tuymans on Baroque, allestita presso la sede di Milano della Fondazione Prada fino al 25 febbraio 2019 (chi può s’affretti!): in questo caso il reale preso in esame è prioritariamente interno al mondo dell’arte, con «accostamenti inediti e associazioni inaspettate tra lavori di artisti contemporanei e opere di maestri del passato», là dove la Tradizione a cui si fa riferimento è, come da titolo, quella barocca.
Tra i molti esempi possibili, i maggiormente funzionali al nostro piccolo discorso sono due.
Il primo: le enormi teche contenenti miriadi di soldati nazisti in miniatura impegnati in surreali, finanche grotteschi atti di violenza (Fucking Hell di Jake & Dinos Chapman, 2008), poste di fronte al rivoluzionario realismo del Ragazzo morso da un ramarro di Caravaggio (1596-97), ad attualizzare attraversando secoli, forme e poetiche la sorprendente violenza innescata dal Maestro cinquecentesco.
Il secondo: la rifrazione proposta da Carla Arocha e Stéphane Schraenen in Circa Tabac (2007) è pienamente leggibile, finanche letterale. Si tratta di una installazione di specchi che crea una frammentazione e al contempo una moltiplicazione dei quadri e delle sculture che la circondano, restituendo alcuni dei tòpoi del discorso contemporaneo sull’arte (e, per estensione, sul mondo): smaterializzazione, raffreddamento, moltiplicazione dei significanti e dei significati.
Si potrebbe a lungo continuare, ma per amor di brevità ci apprestiamo a concludere queste note segnalando almeno due fra le esperienze estetiche (nel senso etimologico di occasioni di conoscenza attraverso i sensi) proposte da Atlas, la Collezione Permanente di Fondazione Prada a Milano: i celeberrimi macro-funghi rotanti a testa in giù di Carsten Höller che si incontrano, straniata e straniante visione, al temine di un labirinto attraversato nel buio più totale e la commovente scultura di tessuto Single III di Louise Bourgeois, davanti alla quale non ci si può che chinare e inchinare.
Tanto, tanto, tanto altro si potrebbe dire su questo luogo sbalorditivo (a partire dallo spazio ripensato dall’archistar Rem Koolhaas) e sulle meraviglie che contiene.
Per ora, per sintetizzare questo arbitrario accostamento milanese, vale tornare per un attimo alle folgoranti note di John Cage su Robert Rauschenberg citate in apertura: «I doni, inattesi e non necessari, sono un modo di dire “sì” a come sono le cose, una festa».
MICHELE PASCARELLA
Info: conceptual.it, fondazioneprada.org