«Guardare fa di noi ciò che siamo» sintetizza Mark Cousins, autore di un’opera monumentale e intrigante.
Un intreccio al contempo coltissimo e leggero, appassionato e appassionante di storia dell’arte e del cinema, scienza e antropologia, storia tout court e letteratura, Skype e piramidi, urbanistica e religioni, Commedia dell’Arte e innovazioni tecnologiche, Occidente e Oriente. Tutto questo (e tanto, tanto altro) al servizio di una sola, minuscola e contemporaneamente smisurata attitudine dell’umano: accorgersi.
Di come guardiamo il mondo.
L’autore, Mark Cousins, è uno scrittore, critico cinematografico e regista irlandese: uno che del guardare ha fatto un mestiere. E che non si spaventa di fronte alle imprese smisurate: un suo documentario del 2011 (15 episodi, durata complessiva 915 minuti!) The Story of Film: An Odyssey, fin dal titolo evoca un’ampiezza che farebbe tremare i polsi a più d’un cineasta.
Il poderoso volume (oltre 500 pagine, con centinaia di immagini a colori) attraversa i modi con cui gli uomini e le donne di tutti i tempi hanno incontrato il reale attraverso gli occhi: una lungimirante prospettiva sinottica che, grazie a una vivacissima cultura e un approccio divulgativo di stampo efficacemente anglosassone non perde mai di chiarezza, né di lucidità.
«Una cosa è contenta d’essere guardata dalle altre cose solo quando è convinta di significare se stessa e nient’altro, in mezzo alle cose che significano se stesse e nient’altro»: vien da pensare al Calvino di Palomar leggendo di ciò che Cousins definisce «occhio trasparente», domandandosi (e domandandoci) fino a che punto sia possibile staccarsi dal sé, quando si guarda. Una tale attitudine, genuinamente indagatoria, intride tutto il vertiginoso percorso che l’autore offre -è proprio il caso di dire- al nostro sguardo.
Un consapevole, finanche scientifico allenamento all’attenzione sottende alla concezione di tale opera: «Quando vado in un luogo che non ho mai visitato faccio una specie di elenco mentale delle immagini che ho di quel posto, dei miei pregiudizi visivi, in modo da cercare di scartare i cliché visuali e concentrarmi su quello che ho davvero davanti agli occhi» racconta Cousins in una bella intervista rilasciata alla storica dell’arte Stella Succi «Per esempio, quando sono andato in Iran le mie opinioni visive preconcette erano di incontrare tante donne in chador o completamente coperte, gruppi di persone cantare, soldati americani… Sapevo che avrei visto alcune di queste cose, ma con la mia lista in mente ero sicuro di riuscire a guardare oltre e essere più oggettivo».
Scientifico, si diceva: «Se i colonizzatori impongono la loro storia al mondo» riflette l’autore subito prima di raccontare delle osservazioni al telescopio di Galileo Galilei in cima al campanile di San Marco «nel migliore scenario possibile gli scienziati lo osservano e lasciano che esso imponga la propria storia su di loro».
È una lettura che incoraggia esperienze propriamente estetiche, termine da leggersi etimologicamente come opposto di anestetiche, non di inestetiche: occasioni di esperire la realtà circostante per quale è, nella pienezza dei sensi prima che veicolo di senso.
Oltre ad intrecciare croccanti saperi e ambiti culturali all’apparenza lontanissimi, il maggior pregio di questa Storia dello sguardo è quello d’invitarci, come direbbe il filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, a «guardarsi guardare».
Chapeau.
MICHELE PASCARELLA
Mark Cousins, Storia dello sguardo. Edizioni il Saggiatore, Milano, 2018. ISBN 978842825043. pagine 545, € 35