Abbiamo visto il primo allestimento in lingua italiana dell’inglese Declan Donnellan: «uno dei più grandi registi europei, Leone d’Oro alla carriera», si legge nel programma di sala. Alcune domande elementari.
Due piccole premesse.
La prima: per quel poco che può valere, non scriviamo per gli addetti ai lavori, per quelli che chiamano gli artisti per nome. Lo facciamo per persone curiose.
La seconda: cerchiamo di evitare i giudizi prediligendo, nella funzione critica che ci troviamo talvolta a esercitare, il tentativo di enucleare alcune basiche domande che le opere che incontriamo paiono suscitare.
Con quest’attitudine, propriamente elementare, siamo andati a Bologna per La tragedia del vendicatore, coproduzione Piccolo Teatro di Milano-Emilia Romagna Teatro Fondazione diretta da Declan Donnellan: «uno dei più grandi registi europei, Leone d’Oro alla carriera», si legge nel ricco programma di sala.
La semplice, finanche ingenua domanda con cui siamo saliti in treno è stata: vediamo cosa fa di un regista un grande regista. Nei primi minuti dello spettacolo ci siamo risposti: la magistrale capacità di comporre gli elementi della scena (attori, suoni, parole, oggetti, scenografia, …), così da creare dinamismo e sorprese, vivezza e invenzione.
Abbiamo guardato quattordici attori (una enormità nelle produzioni d’oggi, sia detto per chi poco frequenta i teatri) elegantemente vestiti e fisicamente affatto proteiformi interagire fra loro e con un’imponente scenografia di porte scorrevoli di legno rosso, dietro a cui un enorme schermo accoglieva la proiezione di colorate vetrate dal sapore ecclesiastico. Una pedana, anch’essa scorrevole, faceva avanzare e retrocedere scenografie e attori, dediti a un vivace intreccio di naturalismo e stilizzazione, dramma e ironia, espressività ed espressionismo.
Su tutto: ritmo.
Un grande regista è colui (o -ahinoi più raramente- colei: il sistema delle arti permane penosamente maschilista) che sa mettere in tensione fra loro gli elementi che ha a disposizione per creare immagini e immaginari, ci siamo ripetuti.
La ridda di invenzioni iniziali ha lasciato spazio, di lì a poco, a un intricato e più sottile susseguirsi di vicende immaginate quasi quattro secoli fa dall’”ingegno universitario” dell’inglese Thomas Middleton, coevo di William Shakespeare e, dicono alcuni, uno dei suoi ghostwriter.
Follia, passioni, splatter: a partire dal desiderio di vendetta per una promessa sposa stuprata e avvelenata poco prima delle nozze fino «a una sorta di sabba infernale, in cui tutti uccidono tutti», anche senza scomodare Freud lo spettacolo mette in scena Eros e Thanatos.
L’accoglimento delle pulsioni come elemento fondante il mondo è il perno dell’universo immaginato da Middleton e ricreato da Donnelan – elemento che, sia detto per inciso, rimanda a una quantità di domande sull’autorialità quasi sempre condivisa di questo tipo di arte: quanto di ciò che vediamo (al di là che lo si apprezzi o meno) è «farina del sacco di» Thomas Middleton? Quanto del suo traduttore italiano Stefano Massini? Quanto del regista Declan Donnellan? Quanto degli attori (della loro professionalità/fisicità/condizione di salute, emotiva, psichica, …)? Quanto degli altri artisti che hanno concorso alla creazione dell’opera (per musiche, luci, costumi, …)? Quanto della nostra percezione del momento, condizionata da una più o meno nutrita schiera di variabili (la nostra cultura, il nostro umore, il nostro stato di salute, il nostro livello di stanchezza, la posizione in cui ci siamo trovati seduti in platea, il piacere o il fastidio provocato dai nostri vicini di poltrona e dai loro smartphone, …)?
Domande valide per quasi ogni spettacolo, certo, ma che in un allestimento come questo, che pare far assurgere l’imponderabile a principio-guida delle vite che racconta, ulteriormente risuonano.
La tragedia del vendicatore mette in scena un mondo, mediante quella stramba evocazione che ne è ogni fatto artistico, che non può avere altra forma (trasmutabile per tutte guise si potrebbe dire, all’incirca, con Dante) che gli conferiscono le pulsioni e passioni dell’uomo e della donna.
Tale centralità dell’umano trova rifrazione negli insistiti riferimenti di marca esplicitamente rinascimentale: la reiterata presenza, nelle proiezioni sui suddetti schermi, di alcuni capolavori di Tiziano, Mantegna e Piero della Francesca a dialogare, sontuosi e immobili, con il brulicante affaccendarsi delle maschere/persone in scena e la scelta registica di prediligere, nel concepire lo spazio scenico, la visione prospettica “sull’occhio del Principe”. Al suo (e al nostro) sguardo sovrano, Donnellan sottomette le vicende comiche o tragiche d’un compiuto microcosmo a lui soggetto.
MICHELE PASCARELLA
Visto all’Arena del Sole di Bologna il 10 gennaio 2019 – info: emiliaromagnateatro.com, piccoloteatro.org
Spettacoli sopravvalutato. Attori non tutti sulla stessa linea di efficacia. Problemi di voce. E poi una noia profonda. Occasione sprecata.
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