Debussy e la danza. Una breve analisi formale

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Nell’ambito della Stagione invernale di Emilia Romagna Festival, al Ridotto del Teatro Masini di Faenza è andato in scena il dialogo tra il  pianoforte a quattro mani del Duo Petrouchka e la danza di Valentina Caggio. Alcune note. 

Corpi sonori e anatomici in movimento: è a partire da una prospettiva squisitamente formalista che proviamo a restituire un succinto tracciato della prima sezione del programma proposto il 15 gennaio scorso al Ridotto del Teatro Masini di Faenza, in provincia di Ravenna, nell’ambito della Stagione invernale di Emilia Romagna Festival.

La serata, che ha visto protagonisti il Duo Petrouchka (Massimo Caselli e Alessandro Barneschi) al pianoforte a quattro mani e, in pedana, la coreografa e danzatrice Valentina Caggio, si è aperta con i Six Épigraphes Antiques di Claude Debussy, a cui sono seguiti Trois morceaux en forme de poire di Erik Satie e la celeberrima Rapsodia in Blue di George Gershwin.

Ci concentreremo, in queste poche righe, sul rapporto fra musica e danza esperito nella prima parte di ciò che ci è stato dato vedere e ascoltare.

I Six Épigraphes Antiques  di Debussy, vale forse ricordarlo, appartengono al gruppo delle composizioni per pianoforte a quattro mani, genere piuttosto à la page fra l’alta società di fine Ottocento: era di gran moda, allora, suonare in casa trascrizioni delle opere di maggior successo, così come riduzioni per pianoforte di alcune monumentali partiture (le sinfonie di Beethoven e i poemi sinfonici di Liszt, in primis).

Senza indugiare oltre su elementi contestuali o contenutistici degli Épigraphes (che comunque, sia detto a onor del vero, accolgono l’attitudine pienamente romantica di farsi luogo di immaginari ancestrali ed esotici, intrecciando fin dai titoli delle singole composizioni il dio Pan e la notte, l’Egitto e la pioggia del mattino), desideriamo notare la circolarità che il compositore ha voluto imprimere a questo breve ciclo, mediante il ritorno del tema presentato nel primo brano alla fine del sesto (un interesse manifestato da Debussy anche in altre composizioni elaborate per varie combinazioni strumentali negli ultimi anni di vita).

Una prospettiva formalista, si diceva: i Six Épigraphes Antiques  sono caratterizzati da accordi sospesi e atmosfere rarefatte che, al di là dei titoli suggestivi, finanche narrativi, degli stessi (Pour invoquer Pan, dieu du vent d’été; Pour un tombeau sans nom; Pour que la nuit soit propice; Pour la danseuse aux crotales; Pour l’égyptienne; Pour remercier la pluie au matin) è -non solo nostra- convinzione che possano eventualmente evocare, simboleggiare, suggerire la forma e il moto di un sentimento, di un ambiente o di una narrazione, non certo significarli univocamente e pienamente. E, com’è noto, forma e moto non sono che parziali componenti di ogni sentimento, ambiente e narrazione, non certo la loro totalità.

In questo senso pare fenomenologicamente appropriato porre attenzione, appunto, alla forma e al moto del tracciato coreografico nella relazione fra corpo sonoro e corpo biologico. Alla circolarità degli eventi udibili la danza ha contrapposto, principalmente negli arti superiori, linee rette e angoli, mentre all’intreccio di pieni e vuoti la coreografia, in parallelo, ha giustapposto una sequenza di contraction-release forse non dismemori di quella Tecnica Graham che ha (in)formato generazioni di artisti in tutto il mondo. Analogamente, alcuni passaggi antimelodici della composizione di Debussy si sono rispecchiati in frammenti coreografici antigraziosi (per dirla con Boccioni, non a caso coevo del compositore francese) in cui una parte (del corpo) guida, finanche obbliga, il movimento dell’intero.

Slanci e ritorni, aperture e chiusure si sono susseguiti, in parallelo o per contrappunto al punteggiare di note, al loro creare voragini e fiotti improvvisi, in un intricato alternarsi di melodia e dissonanza, morbidezza e spigoli: meraviglie di un’arte ontologicamente asemantica.

«Una cosa è contenta d’essere guardata dalle altre cose solo quando è convinta di significare se stessa e nient’altro, in mezzo alle cose che significano sé stesse e nient’altro», direbbe il Maestro Calvino. E noi, con lui.

MICHELE PASCARELLA

Visto e ascoltato al Ridotto del Teatro Masini di Faenza (RA) il 15 gennaio 2019 – info: erfestival.org