La ravennate Stagione dei Teatri ha ospitato il loro spettacolo Follìar. Alcune brevi note.
«Si tratta di rivestire di un linguaggio il più possibile ordinario e trito la situazione dell’attesa in sé e per sé, fino a renderla tanto astratta, traslucida, allusiva e ossessiva da significare tutto quello che può significare, ma al tempo stesso nulla di preciso»: Nicola Chiaromonte dice a proposito del beckettiano Godot, come mai noi sapremmo fare, qualcosa che ci pare attagliarsi perfettamente a Follìar di AstorriTintinelli, spettacolo ospite della ravennate Stagione dei Teatri per il quale Paola Tintinelli, attrice verso la quale tratteniamo a stento l’ammirazione, ha quasi vinto un Premio Ubu, qualche settimana fa.
Follìar, nuovo episodio della lunga ricerca scenica del duo lombardo, propone stilemi più volte praticati dal duo: costruzione e modificazione della scena a vista, nonsense, giochi di parole, sincopata composizione di vuoti e pieni, di silenzi che si intrecciano a fiotti di parole a circoscrivere un vuoto, una mancanza, un abbandono.
Lui brusco, lei lieve. Lui cinico, lei sognante. Lear e il Fool, il Clown bianco e l’Augusto, o ancora Vladimiro e Estragone appunto, Kusturica e Fellini.
La loro folle maestria (magistrale follia), la loro sgangherata sapienza (sapiente sgangheratezza), le loro maschere (dunque persone, ci insegna l’etimo) fanno un passo indietro, in Follìar, rispetto a precedenti lavori: procedono per via scultorea, in sottrazione.
Una sghignazzante desolazione pervade il mondo ri-creato in scena da AstorriTintinelli: un inarrestabile riso cinico, per dirla con Fortunato Depero, intride questo sconsolato ed esilarante esercizio attorno all’arte della scena, specificamente volto a sintetizzare il rapporto fra comicità e, nomen omen, follia.
«Il comico è la forma esterna e visibile che la generosa natura ha accordato a ogni cosa irragionevole» scrisse Molière, forse intendendo che la realtà è qualcosa di altro rispetto a ciò che è dato a vedere.
A proposito: esattamente su questo elemento il duo milanese è stato a volte criticato. «Già visto», dicono alcuni. «Ripetitivo», aggiungono altri.
Se questo in parte è vero (ma quanti sono gli artisti di teatro che non propongono che variazioni sul tema del proprio modo-mondo?), è altrettanto innegabile che il materiale con cui lavora un attore non può che essere, innanzi tutto, sé stesso (il corpo-voce, e poi pensieri, desideri, ossessioni). La percezione dell’originalità come valore è faccenda recente e occidentale: in altri luoghi e tempi, semplicemente, non è questo il punto. E in ogni caso fare arte è (da sempre e al di là di ogni sguardo propriamente romantico) innanzi tutto un mestiere, un modo per procurarsi da mangiare: e il mercato (anche il più off) pretende riconoscibilità e dunque standardizzazione (torniamo in una data pizzeria perché ci piace come lì fanno la pizza, andiamo dallo stesso barbiere perché ci soddisfa il modo in cui ci taglia i capelli, ecc).
Per concludere: la nuova, metodica follia di Alberto Astorri e Paola Tintinelli mette maggiormente al centro, con ancora minori orpelli rispetto al passato, l’archetipica questione della relazione fra umani.
Ciò sia detto, ovviamente, senza smancerie di sorta, senza consolazione alcuna.
«Siamo quelli che si sono sottratti a tenere il passo. Siamo pezzi d’iceberg che si sono staccati e galleggiano nelle acque nere della notte. Ce ne andiamo in silenzio tra le ultime cene, souvenirs, intervalli ricreativi e blues della solitudine. Sogniamo amori portentosi e universi fantastici ma diamo vita al nostro concerto di inferni».
MICHELE PASCARELLA
Visto al Teatro Rasi di Ravenna il 17 gennaio 2019 – info: astorritintinelliteatro.com, ravennateatro.com